Recensioni - Torna in libreria un saggio dove la studiosa si domanda perché l’ebraicità del Nazareno sia stata eclissata tanto tra i cristiani quanto tra gli israeliti. Una questione che tocca l'antisemitismo
di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 13/08/2023
La poesia, l’arte, la scienza, la letteratura sarebbero infinitamente più povere senza il contributo essenziale del mondo ebraico. Àgnes Heller (1929-2019) è una intellettuale che resta inaccessibile senza prendere molto sul serio la sua cultura ebraica e quindi la Bibbia. Filosofa ungherese, è tra le pensatrici più significative della seconda metà del XX secolo. Sopravvissuta ad Auschwitz, ha lavorato a una rifondazione etica del pensiero moderno, prima alla scuola di Gyorgy Lukács a Budapest e poi esule nel mondo – alla Statale di Milano ha tenuto il 24 ottobre del 2018 una delle sue ultime lectio magistralis. Espulsa dall’università nel 1959 fu osteggiata dal regime comunista ungherese che mal tollerava la sua lettura libera e non ideologica del marxismo del quale pure rivalutò alcune istanze umanistiche ed etiche (a partire dalla radice ebraica di Marx), che le costò un lungo esilio, prima in Australia e poi negli Usa, dal 1977 al 1989. Criticò ogni forma di totalitarismo, incluso il regime di Orban con il quale è stata molto severa fino al termine della sua vita.
Lo studio della Bibbia è parte integrante del suo pensiero etico. La Heller filosofa è infatti inseparabile dalla Àgnes ebrea, come emerge anche dai suoi studi sui profeti (Oltre la giustizia, il Mulino, 1990). Si è formata all’interno del grande dibattito mitteleuropeo, sul messianismo e sull’escatologia occidentale (Taubes, Löwith, Rosenzweig, Benjamin e lo stesso Lukács), dove il marxismo era indagato dalla prospettiva della fine e del fine della storia. Il messianismo occupa infatti un posto centrale anche nella filosofia della Heller. In una bella intervista spiegava il senso del suo “messianismo della sedia vuota”, che le proviene direttamente dalla tradizione ebraica, in particolare dal rito del Seder di Pesah quando le famiglie durante la cena lasciano una sedia vuota perché Elia profeta potrebbe arrivare (Malachia 3,23) e annunciare la venuta del Messia: «Bisogna lasciare una sedia vuota davanti al Messia. Chiunque si sieda su quella sedia, chiunque la occupi, è un falso Messia. Abbiamo avuto molte lezioni su questo nella storia recente; più volte abbiamo appreso che era giunto un nuovo Messia, che era giunto il momento della salvezza. Si è sempre trattato di un falso Messia. Dunque quella sedia deve rimanere vuota» (Àgnes Heller, Una vita per l’autonomia e la libertà, il Mulino, 1995). Ma, continua la Heller, quella sedia non si può togliere altrimenti il «rito sarà finito», lo spirito abbandonerà la comunità e «saranno le banalità a occupare l’immaginazione» – e lo stiamo vedendo sempre meglio.
La sedia lasciata vuota e che tale deve restare è anche una chiave di lettura di Gesù l’ebreo, una raccolta di saggi pubblicata in ungherese nel 2000 e ora ripubblicata da Castelvecchi. Il testo si apre con una frase molto efficace che ci introduce direttamente nel cuore del tema: «Il Gesù cristiano è risorto il terzo giorno. Ci vollero duemila anni per far risorgere anche il Gesù ebreo». In quale senso il Gesù ebreo è appena risorto e perché sarebbe restato nel sepolcro per quasi duemila anni? In realtà, la derivazione del cristianesimo dall’ebraismo non è stata mai negata dalla Chiesa, tanto è vero che la tesi di Marcione che voleva eliminare dal canone cristiano tutto l’Antico Testamento per affermare la totale discontinuità del cristianesimo rispetto all’ebraismo, è stata già nel II secolo considerata eretica e la Chiesa ha inserito tutta la Bibbia ebraica nelle proprie sacre scritture – a dire, tra l’altro, che per capire Gesù non bastano i vangeli né il Nuovo Testamento: è necessaria la Bibbia intera.
La tesi della Heller non è un’indagine sul “marcionismo” più o meno presente nel cristianesimo (se ne troverebbe molto), ma una riflessione sulle ragioni che hanno fatto sì che fino a tempi recenti (si pensi, oltre alle molte opere citate nel saggio dalla Heller, a Un ebreo marginale di John P. Meier, Queriniana, 2001) l’ebraicità di Gesù di Nazareth sia stata eclissata sia tra i cristiani che tra gli ebrei: «Il cristianesimo definì la propria identità in contrapposizione all’ebraismo, mentre quest’ultimo si comportava come se non avesse nemmeno preso atto del cristianesimo come religione». Le spiegazioni cristiane di questa lunga eclissi, continuata e cresciuta ben oltre la Palestina del I secolo, sono ben note e legate alla lunga e vergognosa storia dell’antisemitismo, di cui la Heller ha testimonianza diretta. Interessanti sono anche le ragioni ebraiche dell’eclissi.
Il cristianesimo nasce come scisma dall’ebraismo (quantomeno dal giudaismo) e come eresia ebraica. Per gli ebrei era teologicamente impossibile che Gesù fosse “Il Signore”, il Kyrios, perché nella Settanta (la traduzione greca della Bibbia ebraica) Kyrios era la traduzione di Adonai, cioè il nome pronunciabile che si usava ad alta voce tutte le volte che si incontrava il nome impronunciabile di Dio (il tetragramma YHWH). La teologia (e la prassi pastorale) di Paolo aveva poi accentuato la differenza tra il nuovo portato da Gesù e la Legge di Mosè. Il “dialogo” si complicò ulteriormente quando i primi concili risolsero la questione di Gesù nei dogmi trinitari, dove a Gesù Cristo, il Figlio, il Logos, viene riconosciuta la persona divina e la stessa natura del Padre e dello Spirito. Riconoscere l’ebraicità di Gesù Cristo non era dunque una operazione facile per gli ebrei, di ieri e di oggi. Sarebbe, in linea teorica, relativamente facile per gli ebrei riconoscere il dato storico di un Gesù nato “sotto la Legge” e in quanto tale ebreo; ma «la storia del Gesù ebreo finisce con la sua morte in croce», mentre il Gesù (Cristo) delle fede “inizia” con la resurrezione. La Heller infatti ricorda che fino al Golgota il Gesù ebreo non è troppo diverso da quello cristiano: «Il Padre nostro del cristianesimo riveste lo stesso ruolo dello Shemà Israel nell’ebraismo… Tutti gli insegnamenti di Gesù, i logoi e le parabole, provengono da Gesù prima della Pasqua». Il problema inizia nel percorso che porta dal Golgota al sepolcro vuoto. Perché riconoscere il Cristo come ebreo (non solo Gesù), cioè affermare che Gesù restò veramente ebreo anche dopo la resurrezione e dopo la teologia dei vangeli e di Paolo, è stato per quasi due millenni qualcosa di estremamente arduo da ambo le parti, e questo riconoscimento, a livello di religioni, non c’è stato.
Per cercare di riaprire o spingere avanti il dialogo sul Gesù ebreo, nel suo breve libro (in realtà nei soli primi tre capitoli) la Heller fa alcune operazioni precise. Si sofferma in particolare sulla narrativa cristiana della morte di Gesù, che a partire dagli stessi vangeli è stata incentrata sulla uccisione di Dioda parte degli ebrei: il famigerato deicidio, che lei mette in discussione e nega: «dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù è privo di senso quanto dire che gli ungheresi hanno ucciso Imre Nagy». La Heller, citando la letteratura recente su questo, ricorda che la morte di Gesù nacque da un suo conflitto con il tempio (i sacerdoti e la loro “industria”) da cui derivò la denuncia che si concluse con una crocifissione voluta e deliberata da Ponzio Pilato, quindi dai romani. È infatti molto probabile che tutte le titubanze e le incertezze di Pilato durante il processo riguardo la condanna a morte di Gesù che riportano i vangeli siano materiale tardo e polemico dei primi cristiani in conflitto con il mondo giudeo. Pilato ordinò molte, forse centinaia di crocifissioni durante i suoi anni in Palestina, e dalle fonti extrabibliche sappiamo che era un governatore spietato. Detto poi per inciso, i vangeli non hanno nessun dubbio a dire che la morte del Battista sia stata voluta ed eseguita da Erode, cioè dal re ebreo: se fossero stati veramente soltanto gli ebrei a volere anche la morte di Gesù, perché inserire Pilato? Probabilmente l’evidenza storica sul ruolo decisivo (sebbene non esclusivo) dei romani era talmente evidente negli anni 60-70 del I secolo che gli evangelisti non potevano negarla né tacerla, e così l’hanno semplicemente complicata e attenuata. Le divergenze tra gli evangelisti sul resoconto del processo del sinedrio sono un segnale del ruolo redazionale che hanno svolto «le controversie tra la giovane comunità cristiana e il giudaismo, con la chiara tendenza a colpevolizzare i giudei e a scagionare i romani» (G. Rossè, Il vangelo di Luca, Citta Nuova, 1992, p. 935). Così la Heller, citando Sheehan (The first coming…), afferma, con un certo coraggio esegetico, che «non è vero che la folla ebrea urlò “Crocifiggilo”, o “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”… Queste frasi sono i prodotti della violenta lotta tra il primo cristianesimo e l’ebraismo» (p. 39).
Se allora furono i romani, in probabile alleanza con alcuni giudei e sacerdoti, a uccidere Gesù, buona parte dell’antisemitismo si è fondato per duemila anni su un equivoco, su una forte esagerazione narrativa di un conflitto storico tra i primi cristiani e i giudei (soprattutto a Gerusalemme), un conflitto che, tramite la sacralizzazione datagli dai vangeli, si è esteso in tutta l’eta cristiana, fino all’altroieri. Se Gesù non è stato ucciso dagli ebrei (o dai giudei), allora la resurrezione del Gesù ebreo oggi dovrebbe essere più facile sul lato cristiano, dove riconoscere un legame forte del cristianesimo con l’ebraismo, tramite Gesù ebreo, dovrebbe essere più semplice. E sul lato ebraico? La non-resurrezione del Gesù ebreo è stata dall’inizio legata alla resurrezione del Gesù cristiano: sarà sempre così? Il Gesù che può risorgere oggi sarà il Gesù non-risorto, cioè il Gesù dell’insegnamento fino alla sua morte, inclusa la croce? A questo riguardo è molto bello il racconto, che riporta la Heller, di Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, dove si narra di un giovane (Asher Lev) con una spiccata vocazione a diventare pittore (fatto complesso in una religione che nega l’immagine). Questi dopo aver visto a Roma la Pietà di Michelangelo inizierà a dipingere soltanto rappresentazioni della Pietà, perché solo in essa riesce a scorgere «l’angoscia del mondo intero». A questo punto «nessuno nella sua comunità lo capisce più» (p. 29). Il rabbino invece benedice Asher Lev. E così commenta la Heller: «Egli vede ciò che verrà nascosto da duemila anni di persecuzione e oblio: vede nel crocifisso Gesù ebreo». Qui riposa la speranza della Heller – e nostra – di un nuovo tempo ecumenico tra ebrei e cristiani, che dovrebbe partire da un dialogo ebraico-cristiano non ideologico e meno escludente sul significato della resurrezione di Gesù e sul messianismo ebraico e cristiano. La lettura cristiana di Gesù come il Messia non deve spegnere l’attesa del suo ritorno promesso, e quindi la possibilità di rincontrarsi come popoli dell’attesa di un ritorno-arrivo, credenti nella speranza di un non-ancora.