L’analisi. Dopo la Festa del Primo Maggio, grande occasione per “pensare” una dimensione fondante della vita di persone e comunità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/05/2023
«Parlateci di miglioramenti materiali, di libertà, di felicità. Predicate invece il Dovere ai nostri padroni, alle classi che ci stanno sopra e che trattando noi come macchine fanno monopolio dei beni che spettano a tutti. A noi parlate invece di diritti, parlate del modo di rivendicarli, lasciate che abbiano esistenza riconosciuta». Questa pagina non è tratta dalla relazione dell’ultimo congresso sindacale; sono parole di Giuseppe Mazzini, dal suo I doveri dell’uomo (1860). Ed è la paradossale attualità di queste antiche parole a dirci la buona ragione che ci ha portato a festeggiare, ancora una volta, il Primo Maggio.
Le feste non sono tutte uguali. In genere si festeggia con il protagonista della festa: si porta il santo in processione, si onorano i defunti al cimitero, si celebra un compleanno insieme al festeggiato. Il Primo Maggio è invece festa diversa: si onora il lavoro non lavorando, si fa festa senza il festeggiato. La ragione è semplice ed essenziale: il Primo Maggio è la festa del lavoro delle donne e degli uomini liberi, che non erano più schiavi perché potevano non lavorare – nessuno schiavo ha mai festeggiato il suo lavoro. Noi allora festeggiamo il lavoro senza lavorare, e dobbiamo festeggiarlo solo così.
Ma in questo benedetto giorno di non-lavoro abbiamo potuto pensare il lavoro, al lavoro nostro e a quello degli altri, al lavoro di chi lavora e al non-lavoro dei disoccupati. Non c’è il negotium e resta l’otium, rimane il tempo buono per il pensiero libero (la prima libertà del lavoro sta nel poterlo, ogni tanto, anche pensare). Pensare al lavoro-e-basta, perché non accada che l’enfasi sugli aggettivi (sicuro, stabile, degno, buono…) ci faccia dimenticare il sostantivo: il lavoro. Il Primo maggio diventa allora il giorno della grande domanda: che cosa è il lavoro?
Torniamo all’origine delle civiltà e troviamo il lavoro associato al dolore – labor, arbeit, ponos, travaglio sono parole arcaiche che rimandano alla fatica, all’aratro (ar) o «alla parola pre-germanica orbho, servo» (R. Michels, “Economia e Felicità”, 1918, p. 7). La fatica e il dolore sono state per millenni le parole prime del lavoro, fino a ieri, fino a oggi. La festa del lavoro è anche un giorno della memoria delle troppe vittime di un lavoro non amico dell’uomo, della donna e dei bambini. È una festa seria, che ricorda anche e soprattutto ciò che il lavoro non è stato per troppo tempo, e continua a non essere in troppi luoghi del mondo.
Stamane, appena alzato, ho trovato sul telefono un messaggio di Giovanna. Eccolo: «Mi assumono, mi assumono per tutto l’anno, un contratto regolare, registrato». E poi una lunghissima fila di punti esclamativi. Non potevo vederle, ma sono certo che le dita con cui ha digitato quel messaggio erano bagnate dalle lacrime: era stata finalmente assunta con contratto “registrato” dopo anni di lavoretti “non registrati” a pulire le case dei signori. Finivano i lavoretti e iniziava il lavoro. Poi, ieri sera, a casa ho saputo che un mio amico anziano con problemi di demenza ormai non può più stare da solo, perché esce di casa e si smarrisce. Ma la sola “cosa” che può fare da “solo” è tornare nel parco dove ha sempre lavorato come giardiniere e lì passare ore a curare le sue piante: quando torna lì ritrova il “Piero” che era e che è ancora, si riconnette misteriosamente con se stesso. Mentre tocca con le mani le sue piante tocca il suo cuore e lo riconosce ancora, lì l’intelligenza delle mani è ancora viva.
Il lavoro è molte cose; è anche il pianto di Giovanna (quello del contratto di oggi e quelli dei non-contratti di ieri), è la mano amica che riporta a casa Piero quando tutte le altre strade non ci sono più. Questi due incontri sono stati la mia celebrazione del Primo Maggio.
E infine ho pensato a quel nostro, bellissimo, articolo Uno della Costituzione, che non mi stancherò mai di riscrivere: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (ora le dita umide sono le mie). Ogni generazione deve rileggere e ricomprendere il senso di questa frase. Il lavoro che abbiamo posto nel primo comma della nostra Costituzione non era il lavoro “non registrato” di Giovanna, anche se non dobbiamo pensare che negli anni in cui lei ha lavorato senza contratto pur di far vivere i suoi figli sia uscita dal perimetro dell’Articolo Uno: possiamo salvarci anche dentro lavori sbagliati che non scegliamo perché non abbiamo scelta, lo abbiamo fatto molte volte. Il lavoro che l’Assemblea costituente aveva in mente era però un altro lavoro, che non sempre è arrivato, che non sempre arriva, che non arriva per tutti, che non arriva quasi mai per i poveri. Ma che può sempre arrivare, che deve arrivare. Poi pensavo che siamo noi, esseri umani liberi, a dare dignità al lavoro: una attività svolta da una donna o da un uomo diventano migliori, perché le trasmettiamo la nostra dignità, che non avrebbe in questo grado altissimo se a farla fosse una macchina. Quell’immagine di Dio che la Bibbia ci ha voluto donare noi la trasmettiamo, un po’, anche alle cose che facciamo e tocchiamo lavorando.
E alla fine ho pensato che il lavoro poteva fondare la Repubblica perché in quel mondo il lavoro era fondato su qualcosa più grande del lavoro. Il lavoro è un buon fondamento della democrazia se prima e dopo il lavoro c’è qualcos’altro di ancora più profondo: la famiglia, la comunità, il bene comune, una terra promessa da raggiungere insieme. Il lavoro non si fonda da solo. Quando usciamo dall’ufficio e lì ci attende un deserto relazionale, questo lavoro è troppo debole per fondarci la Repubblica. Oggi il lavoro è in crisi, e lo è molto più di quanto ancora ci appaia, perché si sta desertificando il territorio civile e spirituale attorno a esso. Questo lo sapeva bene oltre duemila anni fa il saggio Qoelet, che si chiedeva: «C’è chi è solo, non ha nessuno. Eppure senza fine si affatica: “Ma per chi è il mio penare?”. Vanità, fumo anche questo» (Qo 4,7-8). Il processo, in continua crescita, delle “grandi dimissioni” di milioni di persone (giovani soprattutto), non è soltanto, né principalmente, uno degli effetti del post-Covid; è anche una crisi del rapporto nelle nuove generazioni tra il lavoro e la vita. «Ma perché e per chi questo mio penare?», è sempre stata la prima domanda del lavoro, alla quale fino a pochi anni fa sapevamo rispondere. Non si lavora soltanto per sé stessi. Il lavoro si nutre delle virtù civili e delle passioni che gli sono attorno, e quando queste sono troppo piccole e scarse il lavoro si spegne. Oggi il lavoro soffre fuori dal lavoro, da lì va rivisto.
Nel mondo che abbiamo disincantato non è arrivato il superuomo; al suo posto è apparso l’homo oeconomicus, con i suoi culti perenni di consumo. Ma l’homo oeconomicus non riesce a lavorare se non diventa più grande del suo lavoro. Chi oggi vuol salvare il lavoro deve piantare alberi nella terra arida delle comunità, e poi prendersene cura. Non salveremo il lavoro facendo aziende sempre più attente al benessere lavorativo: è sul benessere non-lavorativo dove si sta decidendo la qualità del lavoro di domani.
Credits foto: © Livio Bertola