Editoriali - La rivoluzione è un'eredità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/01/2023
«Giano bifronte, origine silenziosa dell’anno che scorre… Oggi evitate parole e pensieri di mal augurio! In questo momento bisogna pronunciare parole positive in un giorno buono» (Ovidio, Fasti, 65-75). Nella cultura latina l’inizio del nuovo anno era affidato a Giano, il dio italico degli inizi e dei passaggi (ianua: porta), il padre dei mattini. Quell’antica saggezza sapeva che il nuovo è profondamente inscritto nel vecchio (Giano è bifronte). Lo sappiamo anche noi, eppure ogni volta che inizia un anno nuovo speriamo tenacemente che accada qualcosa di migliore, che saremo capaci di liberarci dalla necessità del passato e mostrarci diversi, che nostro figlio sarà quella bellezza e quella pace che noi non siamo riusciti a diventare. Da qui il senso degli auguri, di bene-dire il tempo che sta per iniziare, perché le parole buone pronunciate nel principio hanno una speciale capacità performativa, migliorano ciò che bene-diciamo, danno ali alle nostre promesse.
Pensando al nostro tempo di passaggio, la prima parola da dire diversamente è povertà. La povertà è parte essenziale della condizione umana di tutti. L’Europa, grazie soprattutto a Cristo, aveva generato una civiltà che mentre lottava contro la miseria non disprezzava i poveri in carne e ossa, non li malediceva, perché Gesù li aveva chiamati “beati” e perché Francesco per l’”ignota ricchezza” della povertà aveva lasciato le altre ricchezze note. Da questo umanesimo sono nati gli ospedali, le scuole, i Monti di pietà, e poi lo Stato sociale, che non trattavano i poveri come maledetti ma solo come sventurati. Oggi la prima povertà di cui soffrono i poveri è la mancanza di stima, è sentirsi considerati colpevoli, guardati solo come portatori di bisogni e non di talenti e virtù pur dentro le loro indigenze. Perché ci siamo dimenticati che a coloro che chiamiamo “poveri” manca molto ma non manca tutto – e la dignità si situa nella differenza tra il “tutto” e il “molto”, e lì dove si alimenta anche la reciprocità. L’ultimo brano di welfare sarà cancellato quando convinceremo l’ultima persona che i poveri sono colpevoli della propria povertà.
Poi c’è il lavoro. Attorno al lavoro si sono sempre dette e scritte molte parole, non tutte buone e vere. Lo abbiamo scritto nell’incipit della nostra Costituzione, e abbiamo fatto bene. Ma non dobbiamo dimenticare cosa fosse nel dopoguerra veramente il lavoro in Italia e nel mondo.
Se a scrivere quell’articolo 1 non fossero stati professori, politici e giuristi ma lavoratori della terra, delle fabbriche, dei cantieri, le lavoratrici delle filande e delle risaie, difficilmente avrebbero fondato il nuovo patto sociale su quel loro lavoro concreto - il lavoro ha sempre sofferto per narrative scritte da non-lavoratori. Perché le parole dei lavoratori veri erano ‘“schiene incurvate”, “miseria e fame”, “padrone e servo”, “travaglio”. Il lavoro è stato quasi sempre esperienza non troppo diversa dalla servitù, se si eccettuano poche élite di artisti, di artigiani e di professioni liberali. La Bibbia, espertissima di umanità prima di essere esperta di Dio, quando pensava al lavoro andava subito alla produzione forzata di mattoni in Egitto.
E quando quegli uomini e donne scrissero «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» guardarono, profeticamente, al lavoro di domani. Guardarono negli occhi il lavoro del loro tempo e gli dissero: “Diventa quello che non sei ancora, lo puoi diventare”. E fu come una preghiera. Oggi le profezie della Costituzione sono sempre più lontane, e torna minaccioso all’orizzonte l’ombra del lavoro per umiliare i deboli e i poveri, i mattoni d’Egitto cercano ogni giorno di riprendere il posto del lavoro degno e congruo.
L’articolo 1 è l’articolo dell’inizio, è il padre del mattino del giorno che non c’è ancora ma che deve arrivare. Infine, spiritualità. Siamo dentro una immensa carestia di spiritualità.
Abbiamo ottenuto risultati straordinari nel “foro esterno” della nostra civiltà – tecnica, economia, scienza –, ma nel “foro interno” siamo regrediti di secoli, se non di millenni. L’homo sapiens post-moderno è un analfabeta spirituale di ritorno. Anche il capitalismo è nato da uno spirito, cristiano e biblico, poi il figlio (capitalismo) ha divorato suo padre (spirito). Ma senza spiritualità la depressione diventa pandemia globale, le persone non riescono a cooperare, le imprese a produrre, la democrazia a funzionare. È sempre più urgente che le Chiese e le religioni lascino i loro recinti e le loro “comfort zone” di consumo sacro e opere sociali e aiutino il mondo a ricostituire un nuovo capitale spirituale. Il capitale spirituale è la “casa” di tutti i capitali di una società: senza di esso tutti gli altri vagano nomadi, esposti a ogni pericolo.
Per ricreare capitale spirituale c’è bisogno di un coraggio che ancora non c’è, lasciare il basso cabotaggio delle certezze teologiche e religiose di ieri e inoltrarsi nel mare aperto e ignoto delle nuove narrazioni, perché quelle che abbiamo sono troppo legate a registri simbolici premoderni e quindi incomprensibili dalla quasi totalità della popolazione. Certo, ci possiamo accontentare di custodire ciò che resta, trasformando la fede in un mausoleo di cose venerate e morte.
Ma possiamo anche fare molto di più e di diverso, perché ogni fede è viva se crede nello Spirito di domani almeno quanto ha creduto in quello di ieri. I giovani stanno facendo cose splendide. Stanno già scrivendo brani del nuovo capitale spirituale, ma da soli non ce la faranno. Hanno un bisogno vitale anche dell’eredità spirituale delle civiltà, dalla quale rischiano seriamente di essere esclusi per mancanza di adeguati codici interpretativi. Le parole, le emozioni, le lacrime, le indignazioni, le speranze del loro mondo sono sempre più distanti dalle nostre. C’è un bisogno urgente di una rivoluzione narrativa delle religioni e della spiritualità: è ora di mettersi a lavoro. Buon anno!