Editoriali Avvenire

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Mai soltanto per utilità

Commenti -  L’altro nome del dono è meraviglia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/01/2022

Quasi mai resistiamo fino all’epifania per inserire i re Magi nel presepe. Entrano già nel primo allestimento, sebbene all’inizio siano laggiù in fondo, in lontananza, ma sempre dentro l’orizzonte. Perché i Magi ci piacciono molto per molte cose. Compaiono nella Buona novella cristiana per visitare un bambino e escono con discrezione dai vangeli. Ci hanno insegnato l’ospitalità - non si va mai a trovare una mamma che ha partorito senza un dono. E ci ricordano che la missione universale di Gesù non si traduce in un potere religioso universale ma in un messaggio di gioia, di speranza, di pace, di dialogo e fraternità, dono per tutti i popoli e per tutte le religioni. Dei re Magi non si dice infatti nei vangeli che divennero cristiani; ma guai a toglierli dal presepe, ci devono stare come Maria e Giuseppe - coloro che credono che il presepe sia una festa troppo confessionale dimenticano i Magi. 

Uomini venuti da lontano che ci hanno insegnato l’arte del fare i doni. Se il Natale è la festa dei doni e dei doni per i bambini in modo speciale, lo dobbiamo anche ai Magi.

Entrati nella casa di Maria “videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Matteo 2,11). Prima si prostrano e adorano, poi consegnano i loro doni. Questo ritmo dei gesti è essenziale: i Magi iniziano la loro visita adorando, prostrati (procidentes, cioè ‘gettati a terra’), e solo dopo fanno i loro tre doni. Certo, i Magi adorarono un bambino speciale, adorarono Gesù. Ma loro non sapevano che quel bambino fosse il Figlio di Dio; speravano che fosse un nuovo re, sapevano che era un figlio dell’uomo. E allora in quel loro gesto ci svelano alcune dimensioni antropologiche del dono che valgono anche per i nostri doni, almeno per quelli diversi e decisivi.

Una certa adorazione è il primo movimento del dono. Adorare, dal latino ad-orare, cioè portare alla bocca (or). In oriente era infatti comune che quando un viaggiatore arrivava in visita da una persona, come prima cosa si portava la mano verso la propria bocca, la baciava e poi con essa lanciava baci verso la persona ‘adorata’. Qualche volta si baciavano i piedi, un ginocchio, la mano. Ma la mano alla bocca, soprattutto nel Medioriente, era anche segno di stupore, un linguaggio per dire la meraviglia di un incontro che toglieva il fiato e faceva restare muti di fronte al valore e alla bellezza della persona che si aveva di fronte. L’adorare è quindi gesto della bocca, ha a che fare con i nostri baci e con il nostro silenzio - la parola greca che usa Matteo per dire ‘adorare’, proskynesis (προσκύνησις), letteralmente significa ‘baciare verso’.

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