Editoriali Avvenire

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Donne, Olimpiadi e giuste virtù civili. Segnali deboli (e scomodi)

Commenti - Tokio 2020

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 31/07/2021

Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protestare contro la sessualizzazione del corpo femminile, che fanno seguito alla multa nei recenti campionati europei delle giocatrici norvegesi di pallamano da spiaggia per aver indossato pantaloncini al posto dei bikini, sono tutti fatti da prendere molto sul serio.

È innegabile che le Olimpiadi, e in generale il mondo dello sport, sia pensato da maschi per maschi. Le donne sono state ospitate e si sono adattate. Se si eccettuano la ginnastica, il nuoto sincronizzato e pochissimo altro, le gare femminili sono repliche di quelle maschili, eseguite con una efficienza quantitativa inferiore del 10-15%. Fanno tutti e tutte le stesse cose, ma le donne le fanno un po’ più piano, con ostacoli più bassi, saltano e sollevano un po’ meno, lanciano sfere metalliche e giavellotti meno pesanti. La competizione, l’anima dello sport, è disegnata sul paradigma maschile, come se il competere fosse vissuto allo stesso modo dai maschi e dalle femmine.

Nelle Olimpiadi, nonostante l’auspicio fondativo di De Coubertin, la dimensione competitiva e posizionale è esasperata. Basti pensare alla logica del medagliere. Ha un ordine assolutamente lessicografico: una nazione può vincere cento medaglie, ma se ha vinto solo argento e bronzo sarà sempre dietro ad un’altra che ha vinto una sola medaglia ma d’oro. Una misurazione analoga alla dittatura del Pil (tra l’altro, le prime venti nazioni del medagliere non differiscono molto dal G20).

Dalla ricerca sappiamo che le donne, in media, hanno un rapporto diverso con la competizione. Alcuni esperimenti hanno mostrato che quando per accedere a un livello più alto di remunerazione occorre passare attraverso un torneo, le donne molto più degli uomini rinunciano a quell’aumento di stipendio (Vittorio Pelligra, "L’economia alle prese con la questione di genere", Lavoce.info). Le donne mostrano una maggiore avversione per il rischio, e, soprattutto, una maggiore avversione per la diseguaglianza, che le portano a preferire assetti più simmetrici ("Gender differences in social risk taking", Journal of Economic Psychology). Le ragazze poi tendono più dei ragazzi a empatizzare con i non-vincenti, a preferire l’allineamento delle emozioni con le altre atlete, sono più sensibili alle lacrime di chi perde. Sarà cultura, sarà natura, ma i dati dicono questo. L’esperienza soggettiva del gareggiare e del competere non può essere la stessa, non è la stessa.

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