I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 05/12/2021
Le organizzazioni, sia quelle più semplici che, a maggior ragione, quelle più complesse, si fondano sulla divisione del lavoro. La struttura politica di uno stato, la pubblica amministrazione, la scuola, la sanità, le imprese, ma anche la famiglia o un semplice gruppo di amici possono funzionare agevolmente perché esiste una ripartizione di ruoli che vengono delegati, quando le organizzazioni sono progettate in maniera efficiente, alle persone più adatte a svolgere quel determinato compito.
Chi organizza la partita di calcetto, chi sceglie e prenota la pizzeria, chi addobba la casa per le feste natalizie, chi gestisce il settore commerciale, chi quello ricerca e sviluppo, chi opera a contatto col pubblico, chi, invece, nel back-office, chi insegna, chi dirige, chi amministra la giustizia e chi difende la sicurezza dei cittadini, chi scrive le leggi e chi le promulga. Compiti differenti, certamente, ma tutti svolti in base ad una delega: qualcuno che chiede ad altri di fare qualcosa che lui stesso non potrebbe fare per limiti di tempo, competenze, legittimazione.
Delega e azzardo morale
Abbiamo visto la settimana scorsa come in tutti questi casi l'esistenza di una delega crei i presupposti per comportamenti opportunistici, faccia nascere, cioè, il rischio di “azzardo morale”. Quando si delega a qualcuno lo svolgimento di certi compiti lo si fa, di solito, in base alle sue competenze specialistiche: il chirurgo in sala operatoria o l'avvocato in tribunale.
È proprio la natura specialistica di queste competenze che rende difficile per il delegante, il paziente o l'imputato, valutare in maniera precisa quali interessi il delegato stia realmente promuovendo. Il caso classico a riguardo è quello della relazione tra datore di lavoro e lavoratore. Una volta sottoscritto il contratto, immediatamente emerge un problema di asimmetria informativa: il datore di lavoro non può osservare o verificare in maniera precisa le azioni del lavoratore che diventano “informazione privata”. Questa asimmetria, assieme al potenziale conflitto di interessi che esiste tra datore di lavoro e lavoratore, fa sorgere il rischio dell'opportunismo e dell'azzardo morale: la possibilità, cioè, che il lavoratore, incontrollato e incontrollabile, possa operare, almeno in parte, contro gli interessi del suo datore di lavoro.
Abbiamo tutti presente i molteplici casi dei “furbetti del cartellino”, giusto per fare un esempio. Per cercare di mitigare i guai legati all'azzardo morale, negli anni, gli economisti, come ci ricorda Canice Predergast, dell'Università di Chicago, «hanno studiato una moltitudine di meccanismi che possono essere utilizzati per indurre i lavoratori ad agire nell'interesse dei loro datori di lavoro: il cottimo, le opzioni, i bonus discrezionali, la partecipazione ai profitti, i salari di efficienza, le compensazioni differite, e molti altri» (“The Provision of Incentives in Firms”, Journal of Economic Literature 37, 1999, pp. 7-63).
Lo strumento più semplice, almeno apparentemente, di tutto questo armamentario è il cosiddetto “contratto incentivante”. Ne vedremo le caratteristiche essenziali per poi valutarne i pregi, i difetti, le conseguenze e i possibili sviluppi.
Rischio e interessi divergenti
Come spesso si fa quando si costruiscono modelli formali inizieremo con qualche assunzione semplificatrice. Assumiamo che il datore di lavoro sia neutrale rispetto al rischio, mentre il lavoratore è avverso al rischio. Il datore di lavoro è indifferente tra giocare una lotteria che gli fa vincere 200 euro al 50% o niente al 50% e ottenere 100 euro con certezza. Il lavoratore, invece, preferisce i 100 euro sicuri e per essere convinto a correre il rischio connesso alla lotteria dovrebbe ricevere una somma addizionale che definiamo, appunto, “premio al rischio”.
La seconda assunzione che facciamo è che il lavoro per il lavoratore rappresenti un costo, una fonte di disutilità. Maggiore è l'impegno (effort) profuso, maggiore sarà tale costo. Il datore di lavoro dovrà dunque compensare con un'adeguata remunerazione tale costo. L'impegno del lavoratore è direttamente connesso al profitto del datore di lavoro. Da qui il conflitto di interessi: il lavoratore vuole minimizzare il costo e massimizzare il salario, mentre il datore di lavoro vuole massimizzare il profitto e minimizzare il salario. La terza assunzione è che l'impegno del lavoratore, il suo effort non sia perfettamente osservabile né verificabile dal datore di lavoro.
Queste due ultime assunzioni creano le condizioni per l'azzardo morale: ogni qual volta potrà, il lavoratore minimizzerà il costo riducendo al minimo l'impegno e, anticipando questo, il datore di lavoro pagherà il minimo possibile il lavoratore. Immaginiamo che siano possibili solo due livelli di impegno, “alto” e “basso”. Naturalmente un impegno “alto” produrrà con un'elevata probabilità un risultato “soddisfacente” per il datore di lavoro, mentre un impegno “basso” porterà con elevata probabilità ad un risultato “insoddisfacente”. Esiste anche una piccola probabilità, però, che a causa di fattori esterni alla volontà del lavoratore, un impegno “alto” determini un risultato “insoddisfacente” così come un'altrettanta piccola probabilità che un impegno “basso” produca un risultato “soddisfacente”.
Immaginiamo per un attimo che l'impegno sia perfettamente osservabile. In questo caso il datore di lavoro potrebbe facilmente indurre un lavoratore ad esercitare un impegno “basso” o elevato semplicemente offrendo un contratto che preveda un compenso appena superiore al costo da questi sostenuto in termini di disutilità. In entrambi i casi questo contratto prevederà un salario fisso. Questo risultato determina una situazione ottimale perché tutto il rischio legato ad eventuali eventi esterni ricade sul datore di lavoro che, ricordiamo, è neutrale rispetto al rischio, preservando, in questo modo il lavoratore che, invece, è avverso al rischio.
Ma le cose, in realtà, non sono mai così semplici perché, come abbiamo già detto, il datore di lavoro non può osservare direttamente l'impegno del lavoratore, ma solo i suoi risultati e siccome questi sono legati solo probabilisticamente all'impegno profuso, esiste il rischio di remunerare bene risultati buoni ottenuti con poco impegno e pagare male risultati insoddisfacenti ottenuti, però, a seguito di un impegno elevato. In questo modo, però, il rischio ricadrebbe totalmente sul lavoratore determinando, così, una situazione inefficiente.
Nel caso di impegno non osservabile le cose si complicano solamente se il datore di lavoro vuole indurre il lavoratore ad esercitare un effort elevato. Nel caso, infatti, di un effort basso, basterà remunerare al livello minimo il lavoratore per essere certi che il suo comportamento sarà coerente. Si parla in questo caso, infatti di effort quasi-osservabile. Ma se il datore di lavoro volesse indurre il lavoratore ad un effort alto, allora dovrebbe procedere in modo differente.
Il contratto incentivante
Lo strumento principale elaborato nell'ambito della teoria principale-agente è il cosiddetto contratto incentivante. Il contratto incentivante è un accordo condizionale che prevede nel caso di un risultato “insoddisfacente” un certo livello di remunerazione e un livello più alto in caso, invece, di un risultato “soddisfacente”. Può essere anche pensato come un contratto con una quota di remunerazione fissa che prevede un bonus nel caso in cui i risultati si siano rivelati migliori del previsto. Il problema è, ora, quello di determinare il livello ottimale di questi livelli di remunerazione e del bonus. La scelta del datore di lavoro deve soddisfare due condizioni: la prima è detta “vincolo di partecipazione” e la seconda, invece, “vincolo di compatibilità dell'incentivo”.
Per soddisfare il primo vincolo il livello della remunerazione deve essere almeno pari al cosiddetto “salario di riserva” del lavoratore. Quel valore che rende il lavoratore indifferente tra il lavorare e non lavorare. Un livello minimo che induca il lavoratore ad accettare il contratto. Al di sotto di questo il lavoratore preferirebbe stare a casa. Ma soddisfare questo vincolo non è sufficiente se il datore di lavoro si aspetta un impegno elevato dal lavoratore. Perché questo si verifichi occorre che l'offerta soddisfi anche il vincolo di compatibilità dell'incentivo, che sia sufficiente, cioè, a più che compensare la disutilità aggiuntiva che il lavoratore sperimenta nel momento in cui decide di esercitare un effort elevato.
Tutti i contratti che incorporano una remunerazione capace di soddisfare entrambi questi vincoli verranno accettati dal lavoratore e questi sarà disposto ad esercitare un effort elevato. Naturalmente tra tutti questi contratti solo alcuni, al limite uno solo, saranno convenienti anche per il datore di lavoro. Il contratto ottimale, dunque, emerge dalla combinazione di ben tre vincoli: deve essere superiore al salario di riserva, deve compensare la disutilità di un effort elevato e, contemporaneamente, deve massimizzare, dati i vincoli, il profitto del datore di lavoro.
Alla ricerca del punto di equilibrio
Che caratteristiche avrà, dunque, questo contratto? Avrà, come abbiamo detto, una parte di remunerazione fissa che sarà più bassa di quella che il lavoratore avrebbe ottenuta se il suo impegno fosse stato osservabile. Poi avrà una parte condizionale – il bonus, che verrà erogato solo in caso di risultati “soddisfacenti” indipendentemente dall'impegno effettivamente esercitato. Alla luce di questo risultato potrebbe sembrare che l'asimmetria informativa e il rischio di azzardo morale non giochino nessun ruolo. Dopotutto, se si adotta un contratto simile, il datore di lavoro potrà essere sicuro che il lavoratore non si comporterà opportunisticamente; la scelta del livello di impegno diventa, quindi, una specie di “segreto di Pulcinella”.
Perché dovremmo preoccuparci, quindi, dell'asimmetria informativa? La ragione è che questa produce dei costi anche se la scelta del lavoratore può essere prevista in maniera precisa. Così come nel caso della selezione avversa, la segnalazione può risolvere il problema ma solo a seguito della produzione di un segnale costoso, anche nel contesto dell'azzardo morale ci sono costi che altrimenti non si sarebbero dovuti sopportare. In particolare questi costi possono manifestarsi in due forme diverse: l'“assicurazione incompleta dell'agente” e la “scelta inefficiente dell'impegno”.
Abbiamo visto che affinché il lavoratore sia indotto ad esercitare un effort elevato è necessario un contratto che potremmo definire “responsabilizzante”. Se le cose vanno bene parte dei profitti viene condivisa, ma se le cose vanno male parte della remunerazione – con riferimento al caso di perfetta osservabilità – viene decurtata. Siccome, come abbiamo detto, il lavoratore è avverso al rischio, per indurlo ad accettare questo contratto “responsabilizzante” il datore di lavoro dovrà pagare al lavoratore una quota aggiuntiva pari al “premio al rischio”. Questa quota aggiuntiva non farà aumentare la produttività del lavoratore e quindi rappresenta per il datore di lavoro un costo secco che riduce i profitti attesi. Se confrontata, dunque, con il caso di perfetta osservabilità dove tutto il rischio cadeva sul datore di lavoro, questa situazione risulta peggiore dal punto di vista del datore di lavoro ed equivalente dal punto di vista del lavoratore. Un “peggioramento paretiano” si direbbe; una perdita di efficienza.
Oltra che a causa di questa “assicurazione incompleta dell'agente”, l'asimmetria produce inefficienza anche sotto forma di una “scelta inefficiente dell'impegno”. Questo vuol dire che, siccome il contratto incentivante prevede un costo aggiuntivo nella forma di “premio al rischio” necessario per indurre il lavoratore ad esercitare un effort elevato, non tutti i datori di lavoro se lo potranno permettere. Per cui alcuni che sarebbero stati disposti a pagare un salario elevato per ottenere un effort elevato in una situazione di informazione simmetrica – piena osservabilità dell'impegno – ora decideranno di accontentarsi di richiedere un effort basso perché il contratto incentivante produrrebbe profitti negativi. Anche qui abbiamo un esito inefficiente legato ad una scelta dell'effort da parte del datore di lavoro che si rivela subottimale.
Perché i contratti assumono certe forme
Questa versione ipersemplificata della teoria del contratto ottimale è stata negli anni sviluppata e rifinita in molti dei suoi aspetti. Nel 2016 il premio Nobel è stato assegnato a Oliver Hart di Harvard e a Bengt Holmström del MIT di Boston, proprio per i loro profondi contributi che hanno rivoluzionato questo campo di indagine. Anche grazie al loro lavoro oggi sappiamo molto di più rispetto a come sviluppare contratti e maccanismi incentivanti capaci di allineare interessi originariamente in conflitto tra loro.
Questo consente di accrescere fiducia e cooperazione anche all'interno di grandi gruppi e organizzazioni e di comprendere più a fondo la natura delle nostre relazioni. Come ricorda il comitato Nobel nelle motivazioni del premio a Hart e Holmström, «Uno degli obiettivi della teoria è spiegare perché i contratti assumono certe forme. Un altro obiettivo è quello di aiutarci a capire come redigere contratti migliori, creando così istituzioni migliori. I fornitori di servizi pubblici, come scuole, ospedali o carceri, dovrebbero essere di proprietà pubblica o privata? Gli insegnanti, gli operatori sanitari e le guardie carcerarie dovrebbero ricevere stipendi fissi o dovrebbero essere pagati in base alle prestazioni? In che misura i manager dovrebbero essere pagati tramite programmi di bonus o stock options? La teoria del contratto non fornisce necessariamente risposte definitive o univoche a queste domande, poiché il miglior contratto dipenderà tipicamente dalla situazione e dal contesto specifici. Tuttavia, il potere della teoria è che ci permette di pensare in modo chiaro a problemi complessi. I contributi dei vincitori di quest'anno – continua il comitato - sono inestimabili per aiutarci a comprendere i contratti e le istituzioni della vita reale, nonché le potenziali insidie nella progettazione di nuove forme contrattuali».
La dittatura comunista sul posto di lavoro
Di queste insidie parleremo a lungo nelle prossime settimane ricordando che le conclusioni di cui abbiamo discusso oggi si fondano in maniera cruciale su alcune assunzioni semplificatrici, certo plausibili, ma non sempre vere; tenendo sempre a mente l'anomalia di fondo che bene esprime la filosofa Elizabeth Anderson nel suo “Private Government: How Employers Rule Our Lives (and Why We Don’t Talk about It)” (Princeton University Press, 2017) quando parla della coesistenza di una implicita dittatura comunista (le grandi imprese nei confronti dei lavoratori) in ambito economico, con la presenza di una democrazia liberale in ambito politico. Mentre in virtù della seconda siamo restii ad ogni forma di limitazione della libertà e di controllo pervasivo, in ossequio alla prima ci dimostriamo docili verso pratiche capaci di condizionare le nostre vite in maniera determinante.
Un governo, sostiene la Anderson, che «garantisce il rispetto delle regole con la promessa di una ricompensa. Perché ha il controllo di tutta la ricchezza della società, può decidere di pagare di più le persone che seguono gli ordini particolarmente bene e le promuove al rango più elevato. Poiché controlla la comunicazione, ha anche un apparato di propaganda che spesso persuade molti a sostenere il regime. Non è necessario che questo equivalga a un lavaggio del cervello. In molti casi, le persone sostengono di buon grado il regime e obbediscono ai suoi ordini perché si identificano con esso e ne traggono profitto. Altri sostengono il regime perché, pur essendo subordinati a qualche superiore, riescono ad esercitare il dominio su qualcun altro che sta sotto di loro. Non dovrebbe sorprendere che il sostegno a questo regime tenda ad aumentare, all'aumentare del rango e della ricchezza. Potremmo considerare persone soggette ad un simile regime libere? Eppure, la maggior parte di noi lavora sotto un governo del genere: è il moderno posto di lavoro».
Il potere degli incentivi
In maniera meno evocativa e più asciutta un'idea non troppo differente viene espressa anche da Luigi Zingales, economista dell'Università di Chicago, il quale afferma a proposito che «La governance è sinonimo di esercizio dell'autorità, direzione e controllo. Queste parole suonano strane, però, quando usate in un contesto di una economia di libero mercato. Perché dovremmo aver bisogno di qualche forma di autorità? Non è forse il mercato capace di allocare in modo efficiente tutte le risorse senza l'intervento di una autorità?» (“Corporate governance”, in New Palgrave Dictionary of Economics and Law, London, Macmillan, 1998).
Gli incentivi sono uno strumento potente. Vanno maneggiati con cura per far in modo che rappresentino realmente una forma di riconoscimento e di premio all'impegno piuttosto che un esercizio di potere, controllo e, perfino, di prevaricazione.