Recensione al saggio di Luca Ricolfi La rivoluzione del merito
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/09/2023
Il saggio di Luca Ricolfi La rivoluzione del merito (Rizzoli, 2023) è una convinta e tenace difesa del merito che, a sua detta, può convivere con una critica alla meritocrazia. Il sociologo torinese denuncia subito il suo sconcerto «di fronte al fuoco di sbarramento che una parte così cospicua del mondo progressista sta alzando contro il merito» (p. 12), perché, sostiene (con molti altri), che il merito sia «l’unico strumento che chi sta in basso ha per sfidare chi sta in alto» (p. 13).
La pietra angolare del suo edificio pro-merito è l’Articolo 34 della Costituzione, in particolare il comma 3: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». È la scuola, infatti, università inclusa, il centro della sua rivoluzione. Perché è qui che dovrebbe essere evidente a tutti che solo i meritevoli e i capaci (MC, come li chiama) dovrebbero oggi accedere «ai livelli più alti degli studi» e così rifornire domani le élite dei migliori. Ci ricorda (p. 69) il dato di partenza di ogni teoria del merito, cioè che il merito non coincide con il talento, ma è una combinazione di talento e impegno, e quindi di dimensioni non meritevoli (Dna, famiglia) e meritevoli (responsabilità individuale). Una tesi che appare ovvia ma che ovvia non è affatto. Perché chiunque osservi la realtà si rende conto che neanche l’impegno e la responsabilità individuale sono, se non in infima parte, merito del singolo. Tornare a casa da scuola e poter studiare è un “merito” che non tutti hanno né avevano, perché se torni a casa e devi lavorare per campare o vivi con altri cinque fratelli in una stanza, concentrarsi per fare gli esercizi con il teorema di Ruffini non è così “ovvio”. Un discorso che oggi non va collocato soltanto nelle campagne di mia madre e mio padre (che a casa non hanno mai avuto neanche una scrivania né un libro) o nelle periferie di Napoli, ma in tutte le nostre scuole frequentate da centinaia di migliaia di bambini, bambine e ragazzi emigrati, che raramente sarebbero selezionati come CM dalle aristocrazie scolastiche di Ricolfi. Quindi anche la componente di impegno nell’algoritmo meritorio è più provvidenza e fortuna che merito; e quando questa componente c’è (e spesso c’è) è comunque troppo fragile per farla diventare il muro maestro della società democratica, forse solo di quella signorile.
Il punto cruciale, che è anche la grande debolezza, del discorso di Ricolfi sta nel prendere l’Articolo 34 come un dogma di fede rivelata, o come un assioma naturale autoevidente e in quanto tale eticamente perfetto e quindi da non discutere democraticamente. E invece quell’articolo è proprio tra quelli che andrebbero presto riformati e cambiati. Perché chi ha, o avrebbe diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi non solo soltanto i bambini e giovani “capaci e i meritevoli” ma tutti; e se va cercata una priorità questa andrebbe trovata tra i meno capaci e i meno meritevoli, perché l’essere o non essere MC non è merito dei bambini. È diritto fondamentale di noi homines sapiens poter diventare qualcosa di diverso dal nostro destino, come ricorda Amartya Sen (che Ricolfi riesce eroicamente ad annoverare tra i critici dell’egualitarismo), un diritto che diventa assoluto quando abbiamo a che fare con bambini e giovani (università inclusa). E se con le borse di studio – che nel sistema Ricolfi svolgono il ruolo di salvatrici della giustizia del sistema – consento soltanto ai poveri MC di poter studiare, sto impedendo a troppi ragazzi e ragazze non-MC di liberarsi dalle ombre del loro destino; perché il concetto di “migliori” è posizionale, ha bisogno di non-migliori, quello di meritevole di quello di demeritevole: e nessun sistema aristocratico – cioè il governo dei migliori, come è quello di Ricolfi – può includere tutti nel sistema MC. Le “borse di studio” andrebbero quindi date a tutti gli studenti, sotto forma di qualità degli insegnanti, delle strutture scolastiche, degli atenei, dei programmi gratuiti pomeridiani per chi rimane indietro. Aiutare chi “non ha i mezzi” è faccenda ancora diversa dai meritevoli e migliori, che invece Ricolfi tratta dentro lo stesso ragionamento: perché i figli dei più poveri devono poter andare a scuola fino al dottorato non perché entrino nel club degli happy few dei meritevoli, ma perché hanno diritto a studiare, e basta, anche senza essere nei “top5%”.
La società che ha in mente Ricolfi è quella retta dal cosiddetto Teorema di San Matteo: «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Ecco perché la storia italiana ha già superato l’articolo 34, ma in un modo diverso da quello auspicato da Ricolfi: sono stati gli insegnanti di sostegno la più grande borsa di studio che ha consentito a molti non MC di raggiungere i livelli più alti degli studi, innalzando l’inno più alto alla democrazia. Ciò che ingenuamente sfugge a Ricolfi è infatti la natura tutta economica della retorica del merito: l’ondata di merito e di meritocrazia non è entrata nella politica e quindi nella scuola per merito dei pedagogisti e dei filosofi; è arrivata dritta dalle business school e dalle società di consulenza globale, che hanno importato la logica del business dentro ogni ambito della vita sociale. Ma la mossa prometeica del saggio è il tentativo di annoverare Don Milani tra i laudatores del merito, cercando di convincerci che il priore è stato solo oggetto della «deformazione del suo messaggio» (p. 65). Quale era allora il suo messaggio? La sua denuncia riguardava “la strage di poveri” (Lettera a una professoressa, p. 42, edizione Mondadori) operata dalla scuola. La scuola che “sognava” e praticò Don Milani si trova agli antipodi da quella immaginata da Ricolfi: «Perché il sogno dell’uguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme: 1. Non bocciare; 2. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno; 3. Agli svogliati basta dargli uno scopo» (pp. 66-67). Lo scopo principale, forse unico, della scuola di Ricolfi è quella di diventare finalmente un meccanismo per selezionare i MC; per Milani lo scopo della scuola è far crescere tutti, è dare a tutti la possibilità di conoscere “le parole”, non solo ai MC, categoria che contestava alla sua radice perché, esperto di Bibbia e di teologia, sapeva bene che le vecchie e nuove teologie del merito sono sempre state inventate per convincere i poveri che erano demeritevoli e poi incolparli della loro povertà. Per Don Milani la natura e la vocazione della scuola è far sì che possibilmente tutti i bambini e giovani siano aiutati a trovare la loro via all’eccellenza – e in questo Don Milani è allievo di un altro Don: Giovanni Bosco.