Editoriali Avvenire

I nipoti illegittimi di Keynes e la MMT per nulla moderna

Teoria Monetaria Moderna - I sostenitori di una teoria che ha radici antiche si richiamano al primo periodo dell’autore del «Trattato»

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 06/06/2019

Delle tre parole di cui si compone la sigla della Teoria Monetaria Moderna (MMT), quella meno controversa è l’aggettivo monetaria, perché che sia una vera teoria è dubbio, e l’altro aggettivo, moderna, è corretto se inteso in senso proprio di 'non contemporanea', perché incorpora una visione della moneta e della banca tipica di fine Ottocento. Innanzitutto, per poter comprendere i dibattiti presenti, è importante partire dall’origine della MMT. Questa prospettiva viene fatta risalire ad un professore tedesco, Georg. F. Knapp, uno statistico ed economista, docente per molti anni all’università di Strasburgo. Knapp non è una figura minore della sua generazione. Fu uno dei principali esponenti della giovane Scuola storica tedesca, un cosiddetto 'socialista della cattedra', una tradizione di pensiero molto importante tra Otto e Novecento e che influenzò molto anche diversi economisti italiani (come Giuseppe Toniolo). La Scuola storica attribuiva un grande ruolo allo Stato e in generale delle istituzioni politiche, e si poneva in alternativa alla scuola liberale inglese e americana, quella che si richiamava a A. Smith e J.S. Mill. All’origine del trattato di Knapp ci sono buone letture: nell’Introduzione riconosce il suo debito verso G. Simmel (il suo trattato sulla filosofia del denaro), e verso uno dei padri della psicologia moderna, G. Th. Fechner, cui deve lo scopo principale del suo libro: 'scoprire l’anima della moneta' (p. ix, 1925).

Se leggiamo il libro ci accorgiamo che la sua 'teoria statale della moneta' si inserisce all’interno dell’antica controversia tra metallismo e moneta-segno. Per il metallismo, la prospettiva di gran lunga prevalente al tempo d Knapp, la moneta dipende dal valore intrinseco del metallo (oro, argento) e dal fatto empirico che quella determinata moneta sia accettata negli scambi dagli agenti economici. La teoria della moneta-segno, invece, basava il valore della moneta sulla credibilità dello Stato che la emetteva. Da qui il celebre incipit del libro di Knapp: «La moneta è una creatura della legge» (p. 1). La moneta esiste perché uno Stato la emette, e perde ogni valore se dietro di essa non c’è uno Stato. Ecco spiegato il titolo del suo libro: teoria statale della moneta. Su queste diverse visioni della moneta e sul loro successo alternato nella storia, restano ancora attuali i bellissimi saggi di Luigi Einaudi sulla 'moneta immaginaria' scritti tra il 1936 e il 1940. Scorrendo la letteratura sulla MMT, si trova poi scritto che questa è una teoria 'neo-keynesiana'. E come prova di ciò si ricorda la citazione che lo stesso J.M. Keynes fece di Knapp. Non si dice, però, che Keynes cita Knapp prima che diventasse keynesiano. Non lo nomina infatti nella General Theory of Employment, Interest and Moneydel 1936, ma nella prefazione ad un suo libro del 1930, The Treatise on Money. Un libro complicato, non ben riuscito, e che Keynes esplicitamente supera e corregge nel 1936.

Il Keynes del 1930 era infatti un economista vicino alle nuove teorie monetarie di inizio Novecento, in particolare alla teoria del circuito monetario (o teoria monetaria della produzione), sviluppata originariamente dallo svedese K. Wicksell, un approccio non troppo distante da quello di Knapp. Le prime idee monetarie di Keynes si ricollegavano infatti a questa autentica rivoluzione avvenuta nella teoria della moneta e della banca tra Otto e Novecento. Prima di questa svolta l’idea dominante nel rapporto tra moneta e banche postulava che i depositi (delle famiglie) precedevano logicamente gli impieghi che di quei soldi facevano le banche. Come potevano le banche effettuare impieghi di denaro (prestiti, mutui...) se non avevano già in cassa la moneta da prestare? In questa visione la banca non era altro che un salvadanaio, pura intermediaria tra famiglie e imprese. E, a livello di sistema, ne derivava che la raccolta fiscale dello Stato deve precedere la spesa pubblica, perché lo Stato può spendere solo quanto prima ha in cassa. Quando nel 1911 Schumpeter scrisse la prima teoria sistematica dell’imprenditore e dell’impresa, basata sul concetto di innovazione, si trovò davanti al grande problema teorico rappresentato da quella vecchia teoria della banca-salvadanaio. L’imprenditore innovatore, diceva Schumpeter, non possiede lui stesso denaro, perché in un mondo senza innovazioni (stato stazionario) non ci sono profitti e quindi non c’è valore aggiunto accumulato. Deve quindi chiederlo alle banche, in particolare ad un banchiere innovatore che capisce l’innovazione e la finanzia. Ma – e qui sta il punto – dove prendono il denaro le banche se non esiste valore aggiunto e quindi capitali disponibili da impiegare? Ecco allora che Schumpeter ha bisogno della nuova teoria monetaria per una teoria della banca che servisse al suo scopo, dalla quale deriva la tesi che la banca può prestare denaro anche senza averlo. Perché la banca moderna, come sua prima funzione, non ha tanto l’intermediazione ma la creazione di moneta ex-nihilo con un semplice ’tratto di penna’, concedendo credito senza avere soldi in cassa che poi nel tempo creerà ricchezza e quindi depositi bancari. Sul piano macro – come sottolinea oggi la MMT – anche lo Stato crea moneta senza aver bisogno delle tasse, semplicemente stampandola.

Torniamo ora a Keynes. Quando il grande economista di Cambridge scrisse il suo Trattato sulla moneta aveva in mente problemi analoghi a quelli degli economisti della sua generazione. Ma nel 1930 Keynes non era ancora keynesiano. Che cosa succede, infatti, tra il 1930 e il 1935? Innanzitutto la crisi economica del ’29 e degli anni successivi fa saltare per aria tutto l’impianto teorico precedente. Nella teoria della moneta di Keynes e dei suoi colleghi la moneta era una sorta di Giano bifronte. Da una parte era considerata un velo delle transazioni reali, un mero misuratore di prezzi, una riserva di valore e un mezzo di pagamento, ben distinto dalla produzione reale. Al tempo stesso, però, alle politiche monetarie e ai tassi di interesse sui risparmi si attribuivano grandi poteri e grande fiducia per il superamento delle crisi. Aumenti di moneta in circolazione (da parte del governo o della banca centrale) e variazioni dei tassi di interesse avrebbero assicurato l’equilibro automatico del sistema economico, senza interventi esterni. Al Trattato sulla moneta di Keynes, finito di scrivere nel 1929, accadde qualcosa di simile a chi ha pubblicato un trattato sulla finanza nel 2007: la storia economica subì una accelerazione che fece invecchiare immediatamente quel libro. Keynes, già molto famoso, ebbe la virtù di lasciarsi interrogare profondamente dalla storia del suo tempo, buttò alle ortiche le sue teorie precedenti (incluso il Trattato), e riscrisse da zero una nuova teoria economica, con innovazioni enormi, anche e soprattutto sul terreno monetario (come recita il titolo del suo libro). Un grande messaggio della Teoria generale di Keynes è infatti la sfiducia nella politica monetaria e in generale nella moneta, soprattutto nei tempi di crisi vera. Quando le aspettative (grande nuova parola keynesiana) sono pessimistiche, la politica monetaria è inefficace. E quando sono molto negative – nella famosa 'trappola della liquidità' – è addirittura nulla. Fu sulla morte della fiducia nella politica monetaria che Keynes inventò la politica fiscale: per uscire dalla crisi, non potendo fare affidamento sulla liquidità e sulla moneta, occorre che il governo investa in spesa pubblica, in concreti e realissimi strade e ponti, che non dipendono (se non in minima parte) dalle aspettative della gente. E così sbloccare il sistema, aumentare occupazione e PIL. Lo 'statalismo' di Keynes non riguarda il monopolio della moneta (non gli interessava) ma la spesa pubblica. Keynes e Knapp sono statalisti per ragioni molto diverse.

Con il secondo Keynes entrano nella macroeconomia e nella politica economica l’incertezza e quelle che Keynes chiamava le tre 'grandi variabili psicologiche' che sono alla base dell’intero sistema. Questa è la vera modernità: il mondo si è molto complicato, le persone con le loro emozioni e 'pance' contano molto. E quando si affrontano sistemi complessi occorre sempre diffidare delle soluzioni semplici, come si presentano quelle della MMT di oggi. Ecco perché chiunque oggi voglia invocare i poteri magici della MMT non può annoverare Keynes tra i suoi alleati. Basta leggere il suo Trattato sulla moneta e la sua Teoria generale per accorgersene subito (letture che ho fatto e in rifatto in gioventù). Oggi Keynes resta vivo non nei 'neo-keynesiani del Keynes non ancora keynesiano' della MMT, ma nel suo grande messaggio: la politica monetaria non serve quando si attraversano crisi di fiducia e di aspettative. Per uscire da queste crisi – come è ancora la nostra – occorrono grandi investimenti pubblici e privati. Infine, per un giudizio sintetico sulla MMT di oggi, mi sembra ancora molto attuale quanto Achille Loria, importante economista contemporaneo di Knapp, scriveva della sua teoria statale della moneta: 'Se l’errore [di Knapp] fosse rimasto nelle pareti dei gabinetti dei dotti e dei sapienti, ne avrebbe ricevuto offesa la scienza, ma la vita economica non avrebbe subito contraccolpi funesti. Purtroppo invece era estremamente facile che i governi si impadronissero di queste false dottrine, e fatti persuasi dai teorici che la moneta poteva esercitare la sua funzione indipendentemente dal suo valore... gli Stati credettero di ritornare all’età dell’oro: si illusero di poter creare ricchezze infinite senza il minimo sacrificio' (1910, p. 474).

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