Un sistema sociale che premia chi è già capace non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che in genere non sono tali per demerito, ma per le condizioni di vita.
di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/06/2023
Le dimissioni del senatore Carlo Cottarelli perché, tra l’altro, non vedeva il suo partito abbastanza deciso nel sostenere la meritocrazia, ha posto di nuovo l’attenzione sul significato e sull’ideologia del merito nel nostro tempo. Merito è sempre stata una parola ambigua, perché profondamente legata al fascino che il merito esercita su tutti noi. Tutti vorremmo meritarci i nostri successi (meno meritarci gli insuccessi), nessuno ama pensare che la bella carriera che ha fatto sia frutto soltanto della fortuna e di raccomandazioni.
Se poi andiamo a vedere come il merito viene usato, ieri e oggi, nelle scelte concrete dell’economia e della società, ci accorgiamo che esso non è stato quasi mai dalla parte dei poveri, che sono stati spesso scartati e poi colpevolizzati perché considerati demeritevoli, convincendoli così di non essere soltanto poveri ma anche colpevoli e maledetti. Merito deriva da merere, cioè guadagnare, da cui derivano anche mercede e meretrice. La meritocrazia è l’ideologia del merito che, come tutte le ideologie, prende una parola che ci piace e ci affascina, la manipola e la perverte. E così, in nome della valorizzazione di chi è meritevole e povero, l’ideologia meritocratica è diventata la legittimazione etica della diseguaglianza.
È bastato soltanto cambiarle nome e la diseguaglianza da male è diventata un bene. I passaggi sono stati tre: 1. considerare i talenti delle persone un merito e non un dono; 2. ridurre i molti meriti delle persone a quelli più semplici da misurare dalle società di consulenza (chi vede oggi i «meriti» della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3. leggere il talento come merito porta a remunerare diversamente i meriti e così si amplificano le distanze tra le persone.
L’equivoco sul merito lo troviamo già dentro la nostra stupenda Costituzione, che all’articolo 34 recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Non a caso il nuovo governo si è basato su questo articolo per giustificare il cambiamento del nome del ministero «dell’Istruzione» in «dell’Istruzione e del merito», insinuandosi nel pertugio lasciato aperto dall’ambiguità di quell’articolo 34.
Gli amanti del merito dicono: «il merito non è solo talento, è una combinazione di talento e impegno, perciò quello che si premia è l’impegno personale». Questi meritocratici dimenticano però l’elemento cruciale: anche potersi impegnare non è merito, è soprattutto dono. Tornare a casa da scuola e avere tempo per fare i compiti, invece di dover lavorare, non è un merito. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che ciò che siamo e diventiamo è per il 90% dono e per il 10% merito; la meritocrazia, invece, ribalta questa percentuale, e fa di quell’esile 10% la pietra angolare dell’edificio della giustizia.
La scuola deve essere, come istituzione, anti-meritocratica: deve cioè ridurre quelle asimmetrie dei punti di partenza che non hanno nulla a che fare con il merito dei nostri bambini. Un sistema sociale che premia chi è già capace non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che in genere non sono tali per demerito ma per le condizioni di vita. Don Milani, di cui festeggiamo quest’anno il centenario, queste cose le sapeva molto bene. Sapeva che i suoi ragazzi di Barbiana non erano demeritevoli: erano soltanto poveri; non erano colpevoli, erano soltanto poveri. Che questo centenario ci faccia riflettere sull’ideologia del merito che sta diventando la nuova religione del nostro tempo, una religione senza gratuità e senza Dio.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA