Economia e bene comune: l'aurora di un nuovo incontro

Bruni, Luigino
Editoriale
Economia e bene comune: l'aurora di un nuovo incontro
in Nuova Umanità n.175, vol.XXX, 2008/1

PREMESSA

Nessun concetto come quello di bene comune è assente dalla teoria economica moderna e contemporanea.
Ritroviamo realtà che gli assomigliano, come «bene pubblico» o «collettivo» (common) 1 i quali, però, come vedremo, sono molto distanti da quanto la tradizione classica e cristiana chiamava e chiama «bene comune».

In quanto segue cercherò di articolare alcune delle ragioni di questa assenza, che può risultare sorprendente a chi sa che l’economia moderna è nata, nel Settecento europeo, con un forte legame con l’idea classica del bene comune.

La tradizione civile italiana della «pubblica felicità» era esplicitamente e direttamente collegata all’impostazione aristotelico-tomista di bene comune, ma anche quella inglese centrata sulla Wealth of Nations, era a modo suo erede di una idea di bene comune quando si prefiggeva la ricchezza e il benessere delle “nazioni” e non solo quello dei singoli individui 2.

LE RAGIONI DI UN’ASSENZA

L’ambivalenza della communitas
L’economia moderna ha affermato nei confronti della tradizione classica cristiana del bene comune, una sorta di “teorema di impossibilità”, che ne ha decretato la scomparsa tra i temi di cui l’economista può, e deve, occuparsi. Quali sono allora le ragioni culturali di questa impossibilità o sostituzione? Per rispondere a questa domanda è necessario un cenno alla storia delle idee.

Nella società tradizionale il bene comune, e la stessa possibilità della vita in comune, erano profondamente legati al sacrificio: la “benedizione” che il rapporto con l’altro mi dona è indissolubilmente legata alla “ferita” che egli mi procura, e che io procuro a lui/lei, come ci dice con grande efficacia il racconto del combattimento di Giacobbe nel Genesi (32, 23-31), un’immagine che non va applicata solo al rapporto uomo-Dio, ma anche ad ogni rapporto interpersonale profondo. Emblematici, a questo proposito, sono anche i miti fondativi di città nell’antichità. La prima città (Enoch) nella Bibbia viene fondata dal fratricida Caino 3.

L’idea di bene comune nell’Occidente premoderno non era dunque associata ad una somma di interessi privati; comportava piuttosto, per così dire, una sottrazione: solo rinunciando e rischiando qualcosa del “proprio” (del bene privato) si poteva costruire il “nostro” (il bene comune), che quindi era comune perché non apparteneva a nessuno – «ours is not mine», recita ancora oggi un proverbio africano.

Va però subito specificato che la visione del mondo premoderno rimane sostanzialmente olistica: si vede la Comunit_gerarchicacomunità, non si vede l’individuo. L’Assoluto assorbe tutto, e l’individualità non emerge. C’è l’Uno, non c’è il molteplice. In particolare l’uomo antico non vede, culturalmente, il rapporto IO-TU, l’intersoggettività orizzontale, tra uguali. Nel mondo antico il rapporto interumano era sempre mediato dall’Assoluto, da un Terzo (che in un certo senso era la communitas stessa) che evitava il contatto pericoloso corpo a corpo.

La struttura relazionale fondamentale della premodernità è dunque triadica, asimmetrica e verticale:

Tutto il medioevo cristiano è stato però anche un lento processo di emersione della categoria dell’individualità a “spese” della communitas 4. In questo processo culturale va collocata la nascita dell’economia politica moderna e l’eclissi dell’idea classica di bene comune 5.

La metafisica del Mercato
La modernità ha tra le sue caratteristiche fondamentali anche la negazione della mediazione comunitaria, e, paradossalmente, la scoperta dell’altro come un tu, come una soggettività che mi si pone di fronte come diverso da me ma, al tempo stesso, su un piano di uguaglianza.

Una volta eliminato l’Assoluto dal proprio orizzonte, una volta tramontato il Sole, nel “crepuscolo degli dèi” l’uomo moderno ha abbassato lo sguardo, si è guardato attorno, e si è accorto dell’esistenza dell’altro, di un altro-che-non-è-lui. Nel mondo moderno l’uomo si trova di fronte un altro come sé ma diverso da sé, dove ogni “io” rappresenta per l’altro “io” un “non” 6.

La scoperta dell’altro fatta dalla modernità è stata la scoperta di un negativo, del non che l’alterità vera porta necessariamente con sé, una scoperta che non è così diventata una via di mutuo riconoscimento, ma ha aperto una stagione – ancora in pieno sviluppo – di ricerca di vie di fuga per non incrociare gli occhi dell’altro.

Hobbes e Smith rappresentano due momenti cruciali in questo processo epocale nelle scienze sociali, due grandi vie di fuga dal pericolo dell’incontro dell’altro come un TU. Il paradosso, però, si scopre presto: la modernità non ha eliminato i mediatori nei rapporti umani (Dio, comunità…), ne ha solo inventati altri.

Hobbes con il Leviatano e Smith con la “mano invisibile” del mercato, hanno inventato dei sostituti dell’Assoluto come mediatore del rapporto IO-TU, mediatori apparentemente più innocui, ma che in realtà si stanno rivelando dei tiranni, dei mostri, proprio come il Leviatano di Hobbes 7.

Stato_MercatoInoltre, come le stesse metafore suggeriscono (il Leviatano è preso dal libro di Giobbe, e la “Mano” di Smith ha un esplicito riferimento all’idea di Provvidenza, sebbene nella sua versione teista), la politica e il mercato moderno si presentano come una nuova “metafisica”, come dei nuovi Assoluti. Il Mediatore diventa il Leviatano o il Mercato, che svolgono, occorre notarlo, la stessa funzione di impedire l’attraversamento di quel “rischio” che è l’altro che si pone affianco a me come un “tu”. È importante notare che sia Smith che Hobbes si muovono culturalmente nel mondo della Riforma, con la sua negazione di ogni mediazione.

Il contratto – privato in Smith, sociale in Hobbes – diventa così lo strumento principale di questa operazione, dove il «contratto è innanzitutto ciò che non è dono, assenza di munus» (Esposito 1998, p. XXV). Le scienze sociali moderne nascono dunque dall’invenzione di una nuova terzietà: non più il Terzo (Dio-Communitas), ma un nuovo terzo che è immune dal nostro rapporto e che ci immunizza reciprocamente, che garantisce o ci promette una terra franca nella quale incontrarsi senza ferirsi.

Emblematica, a questo riguardo, è la teoria liberale neocontrattualistica, soprattutto nella versione di John Rawls. Il contratto sociale richiede tra le sue precondizioni teoriche che tra i soggetti esista un “mutuo disinteresse” gli uni per gli altri (1971, pp. 128-129), poiché sentimenti, senso di appartenenza, amicizia e legami forti, sono tutte cose pericolose, perché sempre tendenzialmente particolaristici e esclusivi.

La grande società pluralista e libera, invece, ha bisogno, per poter essere giusta, di individui senza legami e passioni, che recintano nella propria sfera privata la loro personale concezione di bene8. La diversità tra l’IO e il TU è così affrontata semplicemente rimuovendola, proteggendosi da essa con contratti, sociali e privati, sempre più sofisticati che non richiedono un dialogo né, tanto meno, un incontro interumano, ma una mutua indifferenza, contratti che producono una società tanto più giusta quanto meno le persone si incrociano e si toccano le une con le altre: che cos’è, infatti, il bene comune in un mondo di individui veramente diversi, dove ciascuno ha la propria idea di bene?

Il concetto di bene comune si è eclissato perché è entrata in crisi mortale un’idea stessa condivisa di bene: è stato il venir meno del sostantivo (bene) che ha portato con sé all’eclissi dell’aggettivo (comune).
Il bene comune diventa quindi bene immune. E l’economia? Il discorso per l’economia è ancora più complesso. Innanzitutto, una prima immediata presenza-assenza del concetto bene comune la ritroviamo sotto tutto quel discorso fondamentale dell’economia moderna che ruota attorno alla metafora della “mano invisibile”, che viene fatta risalire ad Adam Smith (nel 1776) 9.

Questa idea di bene comune è il risultato non-intenzionale dell’azione dei singoli individui: lo scopo o l’intenzione di chi realizza un contratto per effettuare uno scambio o di chi mette su un’impresa non è il bene comune o il bene dell’altro contraente, ma il bene/interesse proprio. Se, però, il sistema sociale e istituzionale è ben congegnato (diritti di proprietà, leggi, giudici non corrotti…), in certi contesti può davvero verificarsi l’alchimia degli interessi privati in bene comune, o di vizi privati in pubbliche virtù: gli individui agiscono per interesse e ognuno è “disinteressato” nei confronti degli altri, ma la mano invisibile del mercato trasforma quegli interessi in bene comune (eterogenesi dei fini).

L’imprenditore, per un esempio, quando decide di fondare un’impresa, non è mosso (secondo questa teoria) dall’amor patrio o dalla ricerca del bene comune; ciò che lo spinge è il suo interesse (e quello dei suoi famigliari, al massimo). Il Mercato, però, quando funziona, è proprio un meccanismo che fa sì che questo imprenditore, senza volerlo e spesso senza esserne consapevole, contribuisca anche al bene comune, creando posti di lavoro, prodotti di qualità, innovazione tecnologica, ricchezza.

Il bene comune non è così generato da chi intenzionalmente si prefigge di «trafficare per il bene comune», ma da chi cerca, con prudenza, solo il proprio interesse personale, disinteressato al bene degli altri. Invece, qualunque azione che intenzionalmente si proponga di promuovere il bene comune produrrà effetti perversi per l’impresa e per la società. Da questo teorema scaturisce poi anche un corollario, che riporto con le parole dello stesso Smith: «Non ho mai visto fare qualcosa di buono da chi pretendeva di commerciare per il bene comune» (1976 [1776], p. 456).

Da questa prospettiva, dunque, esiste una netta distinzione tra impresa come istituzione economica (che ha come scopo la massimizzazione del profitto), e l’individuo che privatamente può essere generoso – es. la Microsoft (istituzione) promuove il bene pubblico vendendo i prodotti che il mercato richiede, Bill Gates (individuo filantropo) lo promuove donando una parte della sua ricchezza ai Paesi più poveri. Durante l’attività economica, però, non c’è spazio teorico perché l’imprenditore possa prefiggersi il bene comune come obiettivo della sua azione10.

Ma c’è di più. La stessa cultura dell’indifferenza la ritroviamo in altri due concetti importanti dell’attuale teoria economica: i concetti di bene pubblico e bene collettivo.

Sia i “beni pubblici” che i “commons” restano, infatti, ancorati ad una visione individualistica: tra le persone coinvolte nell’uso di un bene pubblico non è richiesto alcun rapporto o alcuna “azione congiunta”. Questi beni sono un rapporto diretto tra gli individui e il bene consumato, mentre il rapporto tra le persone che lo consumano è, quando esiste, quantomeno indiretto; il Bene Comune, invece, è esattamente il contrario: è un rapporto diretto tra persone, mediato dall’uso dei beni 11. Il bene comune, infatti, è una categoria personalista e relazionale (non centrato sulle cose,ma sui rapporti tra persone)12.

Siamo in presenza di un bene pubblico, ad esempio, quando due o più persone ammirano lo stesso quadro in un museo: i due possono “consumare” il quadro indipendentemente, senza che tra di loro ci siano “interferenze”. È l’assenza dell’interferenza, la “mutua indifferenza” tra i consumatori che rende il bene pubblico (e non privato): una definizione in negativo, senza che venga richiesta nessuna azione interpersonale positiva ai soggetti coinvolti nel consumo del bene.

Inoltre, il bene pubblico è associato dall’economia moderna ad un problema: la “pubblicità” di un bene è problematica, e la ricetta dell’economista moderno alla “tragedia” dei beni comuni e collettivi è tentare la trasformazione dei beni pubblici in beni privati 13, dove la possibilità dell’interferenza è eliminata alla radice. Una tendenza che oggi è particolarmente evidente nei beni ambientali (dei tipici beni pubblici), dove è in atto un processo di trasformazione di beni pubblici in beni privati (si pensi all’acqua, per un esempio), in modo a rimuovere la possibilità stessa del conflitto.

Possiamo accontentarci di tali derivati del Bene Comune quando sottoponiamo l’economia moderna e contemporanea alla critica del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa?

VERSO UN NUOVO BENE COMUNE

L’immunitas è dunque l’opposto della communitas: il dono ci accomuna poiché ci mette nella condizione di insistere su una terra comune, che, per definizione, non è propria a nessuno di noi, laddove il contratto ci rende reciprocamente immuni perché ciò che è mio non è tuo, e viceversa.

La terra comune, il bene comune, proprio perché è terra di rapporti tra eguali, è anche terra di conflitto e di morte, un conflitto e un dolore che la modernità non ha voluto accettare rinunciando – e qui sta il punto – anche ai frutti di vita di quella terra comune. L’idea di bene comune che si è affermata nella modernità nelle scienze sociali è stata, e continua sempre più ad essere, quella dell’indifferenza (invece dell’amicizia), dell’individuo (invece della persona),del mutuo vantaggio (invece della reciprocità).

Il bene comune – o quello dell’altro che interagisce con me – non è parte dei miei obiettivi, ma è lasciato alla struttura oggettiva (e “indifferente”)del contratto: l’interesse di A non è lo scopo del contratto di B,come l’interesse di B non è lo scopo di A; l’uno rappresenta per l’altro solo un vincolo e un mezzo. Non c’è bisogno di incontrarci, in modo rischioso e doloroso, per costruire il bene comune: il grande mediatore, il Mercato, ci promette un bene comune mutuamente immune, senza combattimento, ma anche senza gioia!

L’infelicità crescente delle nostre società di mercato globalizzate è proprio per questa ragione un grande e importante segnale che questo umanesimo nasconde un pericoloso bluff.

Tutte le comunità umane – di lavoro, politiche, condominiali, famigliari – sono luoghi di vita e di morte, di benedizione e di ferita. Così il bene comune: non c’è un bene che possa nascere dalla rimozione del dolore che i rapporti umani inevitabilmente portano con sé, soprattutto in un mondo fatto di persone uguali in dignità, ma diverse e libere.

Ogni discorso sul bene comune si gioca sulla capacità di saper individuare il punto critico delle mediazioni: nessun bene comune può fare a meno di regole e contratti, senza quella giustizia che è la grande mediazione e l’indispensabile terzietà di cui ogni convivenza civile e democratica ha un bisogno vitale. Ma se l’estensione dei contratti supera un punto critico, la vita in comune si intristisce e il bene comune si eclissa: se, ad esempio, per evitare conflitti disegniamo regolamenti condominali, luoghi di lavoro, città che ci impediscono di incrociarci nei corridoi, nelle scale, nei luoghi comuni, nelle piazze (è preoccupante la diminuzione di spazi comuni nelle nostre città), il rimedio allora diventa molto peggiore del male. Una politica per il bene comune, ad esempio, è quella che sa mediare i rapporti senza però impedire che le persone si incontrino.

Senza il rischio della ferita dell’altro non si raggiunge il bene comune, ma solo la mutua indifferenza. Una società, come l’attuale, che vuole non guardare le ferite della socialità umana finisce inevitabilmente per moltiplicarle, dando vita a strutture di ferite per i tanti esclusi dal mercato e dalla politica, e dalle loro mediazioni: bambini, bambine, donne e uomini di tanti Paesi – e qui non posso non pensare all’Africa, che oggi interpella ogni discorso sul bene comune – dove alle ferite della comunità tradizionale si sono sommate le ferite mortali dei potenti della politica e del mercato. Queste ferite si infettano, e non diventano mai benedizioni.

CHE FARE? TRE PROPOSTE INTERLOCUTORIE

Comunità agapica
Ogni idea e prassi di bene comune che si muova in una prospettiva cristiana non può che essere comunitaria: senza comunità non c’è cristianesimo. La comunità che è costitutivamente luogo di ferita e benedizione, di vita e di morte, è l’unico luogo di fioritura umana per la persona fatta a immagine e somiglianza di Dio-Trinità, e che per questo ha una chiamata irresistibile ad amare ed essere amata. La caritas, il grande carisma cristiano, ci fa capaci di vedere la benedizione oltre le ferite delle comunità, l’abbraccio insieme al combattimento, e rende possibile la comunità fraterna.

Una grande risposta all’anomia e alla solitudine della società di mercato è oggi quella del comunitarismo, costruire cioè comunità chiuse alla diversità dolorosa (e quindi ancora immuni), comunità di uguali che condividono una stessa idea di bene e di buone pratiche. È questa la comunità di Aristotele, basata sulla philia, non quella di Gesù Cristo. La philia non può essere per il cristiano il punto di approdo, ma solo inizio di cammino, poiché solo una fraternità universale, non elettiva e chiusa, può soddisfare la nostra esigenza di communitas.
Il bene comune ha bisogno dell’agape, che spezza il particolarismo di ogni comunità e la apre verso l’altro e l’oltre.

Economia comunitaria
Oggi la Chiesa può e deve mettere in luce esperienze economiche di tipo comunitario e agapico, esperienze nelle quali i cristiani non hanno paura di vivere una socialità a tutto tondo anche quando scambiamo, lavoriamo, produciamo, consumiamo, risparmiamo. Una società fraterna oggi può essere tale solo se è anche economia fraterna: non possiamo più rimandare la fraternità e l’espressione piena della nostra vocazione sociale ai sempre più angusti spazi del non-mercato e del non-lavoro.

Anche l’economico può essere un momento alto della vita civile, e su questo la tradizione italiana dell’economia civile ha tanto da dire: si costruisce la città nuova anche nelle imprese, negli uffici, nei negozi, nelle banche; e se non la costruiamo in questi luoghi non la costruiamo da nessuna parte. Nell’era della globalizzazione non si costruisce una buona società senza economia di mercato; una buona società ha invece un estremo bisogno di una buona economia di mercato, che crea e valorizza non solo, e non più, le merci, ma sempre più i beni relazionali e i beni ambientali, da cui dipenderanno presto le nuove carestie che potranno affamare le nostre società opulente.

L’aurora della comunità fraterna
Se tutto ciò può essere vero, allora molte delle esperienze di economia sociale e civile che popolano anche l’Italia e la Chiesa italiana, dal commercio equo a molte esperienze di microcredito, dal movimento cooperativo all’Economia di Comunione, non sono un “terzo settore” o economia “non-profit” (due definizioni in negativo che leggono tali esperienze con griglie teoriche e culturali parziali o errate), né tanto meno esperienze marginali nate per rimediare e supplire ai fallimenti dello Stato e del mercato; sono, al contrario, dei semi di un nuovo (e antico) umanesimo del bene comune e della fraternità, luoghi nei quali si sta salvando l’umano di fronte all’incedere del disumanesimo della mutua indifferenza, nuovi san Benedetto, animati da carismi che li fanno capaci di creare comunità vive e aperte, che possono salvare la civiltà umana di fronte alle nuove invasioni barbariche.

Solo se vediamo in questo modo le esperienze di economia sociale e civile di oggi possiamo capirne davvero il loro significato profetico, e dare un senso alle tante fatiche e ferite, e alle ancor più numerose benedizioni, che i protagonisti di tali esperienze vivono ogni giorno.

Il cristianesimo vive ancora il tempo dell’aurora: non si tratta di rivolgere lo sguardo indietro con nostalgia in ricerca della communitas antica. Il giorno della comunità agapica libera e fraterna può essere appena incominciato.

BIBLIOGRAFIA
A.M. Baggio (a cura di), Il principio dimenticato. La fraternità nella
riflessione politologica contemporanea
, Città Nuova, Roma 2007.
L. Bruni, La ferita dell’altro, Il Margine, Trento 2007.
R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998.
A. MacIntyre, After virtue, University of Notre Dame Press, Notre
Dame 1984.
J. Rawls, A theory of justice, HUP, Cambridge (Mass.) 1971.
A. Smith, The Wealth of Nations, OUP, Oxford 1976 (1776).

* Settimane sociali, Pistoia-Pisa 18-21 ottobre 2007.

NOTE

1 Il bene pubblico è un bene caratterizzato essenzialmente dall’essere consumato da più persone in modo non-rivale (e normalmente non escludibile nei confronti di chi non contribuisce per la sua produzione): nel consumare un bene pubblico (es. l’illuminazione di una strada pubblica) il tuo consumo non è rivale con il mio (se una persona in più passa per la strada, la sua presenza non “interferisce” con il mio consumo). Il “common”, invece, è un bene sempre consumato da più persone (e non escludibile), ma il mio consumo è rivale con il tuo (es. la pesca in un lago comune o il pascolo in un prato comune: se entra un nuovo pescatore, oltre una certa soglia, la pesca media degli altri diminuisce).

2 La tradizione scozzese, che poi diventerà ben presto quella ufficiale, si proponeva di contribuire al bene comune indirettamente, in particolare attraverso la crescita della «ricchezza delle nazioni»; quella italiana, dal canto suo, si proponeva lo stesso scopo ma puntando direttamente al fine (la «pubblica felicità»), e per questo più interessata alle virtù civili che non alla divisione del lavoro per aumentare la ricchezza. Resta comunque il fatto che il bene comune è il grande tema associato alla nascita dell’economia politica moderna, da Napoli a Glasgow.

3 Il Cristo crocifisso, come fondatore della nuova koinonia (l’ekklesia), è l’icona più forte di questa intuizione antica che ha modellato tutto l’Occidente – e che, al tempo stesso, ne rappresenta anche un suo superamento radicale.

4 Un discorso a parte andrebbe fatto per i grandi movimenti carismatici del medioevo, dal monachesimo al francescanesimo e ai tanti ordini mendicanti, che hanno vissuto e trasmesso esperienze di fraternità, di relazionalità orizzontale. Tali carismi, però, sono stati letti e interpretati all’interno dei sistemi filosofici e culturali dell’antichità (dell’Uno), non riuscendo così a tradurre, se non in minima parte, in istituzioni e sistemi sociali e filosofici il potenziale di nuova relazionalità in essi contenuto. Tali esperienze carismatiche restano, comunque, momenti di forte luce civile che hanno svolto la funzione del seme rimasto sepolto nel terreno della storia, per poi germogliare a suo tempo.

5 Un processo che si è svolto in modo tendenzialmente armonioso fino all’umanesimo civile toscano nella prima parte del Quattrocento, ma che poi è esploso in un processo veloce e irreversibile con il Rinascimento, la Riforma, il Seicento e l’Illuminismo.

6 Un pensiero autenticamente trinitario avrebbe potuto tenere assieme questa tensione (come è avvenuto per la riflessione sulle Tre persone divine, dove ciascuna non è l’altra, ma i Tre sono Uno). Il pensiero moderno, ancora troppo erede delle categorie dell’Uno (quanto poco trinitario è stato l’umanesimo occidentale!), ha invece visto l’altro come negazione del sé.

7 È importante notare che sia Smith che Hobbes si muovono culturalmente nel mondo della Riforma, con la sua negazione di ogni mediazione.

8 Interessante, storicamente, è il tentativo dell’utilitarismo classico che ha immaginato un bene comune come somma di beni (o utilità) private: un tentativo, però, che ha avuto breve durata nella scienza economica (e solo in alcuni Paesi), nell’arco di tempo che va da Edgeworth (1881) a Pareto (1900). La linea smithiana e quella contrattualista, invece, godono ancora oggi di ottima salute.

9 Anche se gli inventori della metafora sono stati Vico e gli economisti napoletani Galiani e Genovesi (che però la usavano all’interno di una visione classica, aristotelico-tomista, del bene comune).

10 Nel Novecento, poi, la scuola austriaca (von Hayek in particolare) dirà che il problema principale nell’eventuale ricerca del bene comune da parte dell’individuo è un problema di informazione e di conoscenza: anche se un soggetto volesse intenzionalmente puntare al bene comune (invece che al bene individuale) non saprebbe semplicemente come fare, data la complessità del legame che unisce l’azione ai suoi effetti (molti dei quali sono non intenzionali). La sua azione, magari soggettivamente animata da buone intenzioni, potrebbe generare inintenzionalmente effetti sociali perversi (come nel «dilemma del samaritano» di Buchanan).

11 Un tipico esempio di teoria del bene comune è la visione cristiana dei beni e della proprietà: il centro del discorso sono i principi di giustizia e di reciprocità (rapporti tra persone), e i beni (messi in comune o usati per il bene di tutti e di ciascuno) sono il modo per concretizzare la ricerca del bene comune. L’attenzione non è sul bene, ma sulle persone.

12 Nella dottrina sociale della Chiesa, come è noto, il Bene Comune viene infatti inteso come «la dimensione sociale e comunitaria del bene morale» che è «il bene di tutti e di ciascuno», e per questo «indivisibile perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo» (Compendio della DSC, 164).

13 Questa tendenza è particolarmente radicale in tutta quella scuola di pensiero che si rifà al pensiero dell’economista di Chicago, e premio Nobel, R. Coase.

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