Mind the economy

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Il miscredente, il professore e i troppi morti affogati nel nostro mare

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 25/06/2023

«L’interesse è la prima obbligazione per il rispetto delle promesse» scrive David Hume nel “Trattato sulla natura umana”, volendo significare in questo modo che la giustizia e il vantaggio personale sono alla fine in armonia l’una con l’altro. I problemi sorgono nel momento in cui gli esseri umani, e capita spesso, non sono abbastanza “illuminati”; non capiscono, cioè, che l’essere giusti è, in definitiva, ciò che meglio protegge il loro interesse personale. Per questo abbiamo bisogno di un governo e della nascita della società civile, per stabilizzare le regole della giustizia e per comminare sanzioni a coloro che, colpevolmente, le trasgrediscono, facendo il male per gli altri e anche per sé. Attraverso tali sanzioni l’adesione ad una condotta viene fatta apparire più chiaramente come un nostro interesse immediato.

Le critiche di Adam Smith al maestro Hume

Questa visione così moderna dell’origine dell’idea di giustizia affascinò Adam Smith, padre fondatore della scienza economica, ma filosofo di formazione e soprattutto discepolo e grande amico di David Hume. Nella sua “Teoria dei sentimenti morali” (1759) Smith prende spunto da molte delle posizioni humiane e molte le critica radicalmente. Critica in particolare le idee relative alla nascita della giustizia sulla base del fatto che, come suggeriscono alcuni interpreti, non sono sufficientemente humiane.

Smith le ritiene troppo “raffinate” per essere coerenti con l’impianto generale del suo maestro. Hume, infatti, non presterebbe – secondo Smith – sufficiente attenzione ai sentimenti asociali ed in particolare alla passione del “risentimento” (Pack, S., Schliesser, E., “Smith's Humean Criticism of Hume's Account of the Origin of Justice”. Journal of the History of Philosophy 44, pp. 47–63, 2006). Ne discuteremo più avanti.

Il dialogo intellettuale tra due amici

Ora, prima di analizzare le differenze tra Hume e Smith concentriamoci brevemente sulle affinità che si possono ritrovare nel pensiero dei due amici. La “Teoria dei sentimenti morali” è un libro profondamente influenzato dal pensiero, dall’impostazione e perfino dagli stessi esempi che utilizza Hume sia nel “Trattato sulla natura umana” (1739) che nella “Ricerca sull'intelletto umano” (1748). Possiamo considerarlo come un dialogo intellettuale che si svolge con il maestro e che l’amico che pure Smith non menziona mai esplicitamente, neanche una volta, per ragioni che rimangono ancora oggi dibattute e misteriose.

La fondazione naturalistica della morale

Innanzitutto, è humiana la finalità principale che Smith assegna a “La teoria”: la fondazione naturalistica della morale che viene sganciata in questo modo da ogni genere di autorità sacra o religiosa. Per i due filosofi ciò che giusto o sbagliato non può derivare da un volere divino ma è generato dall’umanità. Scrive Smith: «Quel che è gradevole per le nostre facoltà morali è adatto, giusto e appropriato per l’azione; il contrario ingiusto, inadatto, e inappropriato.

I sentimenti da esse approvati sono gentili e convenienti, i contrari rozzi e sconvenienti. Le stesse parole giusto, sbagliato, adatto, inappropriato, gentile, sconveniente significano solo ciò che piace o dispiace a quelle facoltà. Perciò, dal momento che queste facoltà sono state chiaramente destinate a governare i principi della natura umana, le regole che esse prescrivono devono essere considerate come i comandi e le leggi di Dio, promulgate da quei suoi rappresentanti che Egli ha posto dentro di noi». È la nostra coscienza, il “rappresentate” che Dio ha posto dentro di noi - come la definisce prudentemente Smith – che ci guida rettamente tra ciò che è giusto e sbagliato.

Passioni e sentimenti

La seconda affinità tra i due riguarda l’individuazione dell’origine della morale nelle passioni, nei sentimenti e nella nostra naturale capacità di “simpatia” piuttosto che nella ragione; ipotesi, quest’ultima, che Smith ritiene «del tutto assurda». Ricordiamo che secondo Hume la ragione non era altro e non poteva che essere altro se non «schiava delle passioni».

Lo spettatore imparziale

C'è un terzo punto in comune ed è quello relativo ai limiti dei sentimenti stessi. Entrambi sono convinti del fatto che non sempre ciò che, come individui, riteniamo giusto sia effettivamente giusto in generale. Molto spesso, infatti, i nostri giudizi individuali sono distorti dal nostro personale punto di vista, dal nostro coinvolgimento diretto, dalle circostanze, dalla nostra cultura o, semplicemente, dai nostri pregiudizi. Per questo è necessario, quando si esprime una valutazione morale, mitigare tale parzialità attraverso l’assunzione di un “punto di vista generale” – come lo chiama Hume – o quello di uno “spettatore imparziale”, per usare l'espressione preferita da Smith.

Le differenze (rilevanti) tra il miscredente e il professore

Eppure, come abbiamo anticipato, nonostante la costante ispirazione da parte del maestro e nonostante le affinità superino di gran lunga le differenze, tra Hume e Smith, queste differenze ci sono e sono rilevanti. Dennis Rasmussen, autore di un recente volume sull'amicizia intellettuale tra i due scozzesi - “Il miscredente e il professore” (Einaudi, 2020) – isola quattro temi principali sui quali maggiormente insistono tali differenze: si tratta dell’idea di “simpatia”, di quella di utilità, della giustizia e della religione. Ci concentreremo qui principalmente sulla questione della “simpatia” e nel prossimo “Mind the Economy”, invece, sul tema della giustizia.

Le due visioni della simpatia

Sia per Hume che Smith il termine “simpatia” indica un generale “sentimento di solidarietà” che coinvolge ogni tipo di emozione e non semplicemente quelle negative legate al dolore e alla sofferenza. Per entrambi la capacità umana di simpatizzare è una caratteristica fondamentale e originaria e non deriva, indirettamente, dall’amore di sé. Per Hume tale capacità è automatica e diretta, si tratterebbe quasi più di un “contagio emotivo” vissuto passivamente, che non di un’immedesimazione attiva e volontaria con il destino degli altri come invece appare essere per Smith.

Per quest’ultimo il tema è così centrale che lo colloca proprio all’inizio de “La teoria”, dove nell’incipit scrive: «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l'altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo».

Mentre per Hume, dunque, è sufficiente l’osservazione dello stato emotivo altrui per poterne coglierne la natura e farsi automaticamente contagiare dalle sue emozioni, il processo descritto da Smith è decisamente più complesso e profondo. Per capire cosa provano gli altri occorre innanzitutto immaginare di essere loro.

«Nonostante nostro fratello sia sotto tortura - scrive Smith - finché ce ne stiamo tranquilli a nostro agio, i nostri sensi non ci informeranno mai di quel che sta soffrendo (…) è solo attraverso l'immaginazione che noi possiamo concepire quali siano le sue sensazioni. (…) Con l'immaginazione noi ci mettiamo nella sua situazione, ci rappresentiamo mentre proviamo tutti i suoi stessi tormenti, come se entrassimo nel suo corpo, e diventiamo in una certa misura la sua stessa persona e di qui ci formiamo qualche idea delle sue sensazioni e proviamo persino qualcosa che, nonostante di grado più debole, non è del tutto diverso da esse».

Mentalizzare ed empatizzare

Con l'immaginazione, afferma Smith, possiamo cercare di capire non tanto quali sentimenti sta sperimentando l’altro, ma che cosa vivremmo noi se ci trovassimo nella sua stessa situazione. Non si tratta, quindi, di un semplice contagio emotivo, come invece pensava Hume, ma di una azione di proiezione intersoggettiva del nostro “io” nelle situazioni vissute da “altri”. In termini moderni potremmo caratterizzare la differenza tra le visioni dei due filosofi come la differenza che intercorre tra la capacità di “mentalizzare” e quella di “empatizzare”.

La prima ci consente di guardare il mondo con gli occhi degli altri, mentre la seconda invece è orientata alla condivisione dei loro stati emotivi. È solo attraverso la mentalizzazione, afferma Smith, che possiamo comprendere poi, anche da un punto di vista emotivo, ciò che gli altri stanno provando. Ma non può esserci empatizzare senza mentalizzare, come invece affermava Hume. Perché, continua Smith «i suoi tormenti, quando li abbiamo ricondotti a noi, quando li abbiamo adottati e fatti nostri, cominciano infine a far soffrire anche noi, e così tremiamo e trepidiamo al pensiero di ciò che egli prova. Infatti, come provare dolore o angoscia di qualsiasi genere provoca la più grande sofferenza, così rappresentarci o immaginare di provarlo suscita un certo grado della stessa emozione, in proporzione alla vivacità o alla debolezza della rappresentazione».

Non basta, cioè, osservare lo stato d'animo altrui per comprendere appieno ciò che egli sta vivendo. Smith si discosta da Hume, su questo punto facendo riferimento a numerosi casi relativi alle cosiddette passioni sociali: la rabbia, per esempio. Quando vediamo una persona arrabbiata ciò che eventualmente ci farà simpatizzare con lei, arrabbiandoci a nostra volta, non sono tanto le manifestazioni esterne del suo sentimento, ma la consapevolezza delle ragioni che lo hanno provocato. Ci si può arrabbiare, infatti, per ragioni molto gravi o per motivi del tutto futili. Le prime susciteranno la nostra giusta reazione di condivisione, le seconde, molto probabilmente, no.

Tra contagio e proiezione

«La concezione di Smith – suggerisce Rasmussen - è stata utilmente definita come un resoconto della simpatia in termini di “proiezione”, in contrapposizione a un resoconto di Hume in termini di “contagio”, dal momento che implica una proiezione immaginativa nella situazione di un'altra persona». Tutto il capitolo iniziale de “La teoria dei sentimenti morali” è dedicato proprio alla dimostrazione della validità di questa concezione “proiettiva” della sympathy. Proviamo a immaginare una persona che a causa del suo comportamento o del suo linguaggio incongruo si mette da solo in imbarazzo.

Noi stessi proveremmo imbarazzo per lui anche se lui, magari, dovesse essere del tutto inconsapevole della situazione nella quale si è cacciato. Se ne fosse stato cosciente con tutta probabilità avrebbe evitato di usare certe parole o di comportarsi in un certo modo. Come possiamo spiegare il nostro imbarazzo anche se la persona con la quale stiamo simpatizzando non mostra di provarne alcuno? La posizione di Hume non ci aiuterebbe in questa operazione, mentre quella di Smith riuscirebbe, al contrario, a dar conto perfettamente di ciò che sta capitando.

Immaginiamo un malato terminale che ancora non sa di essere condannato a morire. Il suo stato d’animo appare tranquillo proprio in virtù della sua inconsapevolezza, eppure noi soffriamo per lui. Non perché contagiati dai suoi sentimenti, come affermerebbe Hume, ma perché consci di cosa proveremmo noi in quella sua stessa situazione sapendo ciò che noi sappiamo.

Il truffatore e l’anziana

Il matematico e filosofo Kenneth Binmore ha recentemente riproposto la questione in questi in termini: «Un truffatore potrebbe benissimo entrare in empatia con un’anziana signora trovando il giusto tipo di storia per convincerla a separarsi dai risparmi di una vita. Ma ingannandola con i suoi soldi, non simpatizzerà minimamente con lei. Simpatizzare con lei significherebbe provare preoccupazione per il suo benessere, sentire la sua futura angoscia come se fosse la sua. Ma un truffatore professionista non prova tale angoscia. Può immaginare come ci si senta ad essere una vecchia signora vulnerabile, ma non confonde questi sentimenti ipotetici con i propri impulsi e desideri. Si mette nei suoi panni per vedere le cose dal suo punto di vista solo per sfruttare la sua debolezza. Quindi si immedesima con lei senza provare alcuna simpatia per lei” (Natural Justice, Oxford University Press, 2005).

Simpatia al centro delle due teorie morali

Queste differenze nell'idea di “simpatia” sviluppate da Hume e da Smith sono estremamente rilevanti con riferimento al ruolo fondamentale che i due filosofi attribuiscono al concetto stesso nell’ambito della loro teoria morale. Per Smith la possibilità di simpatizzare con un altro ci rende capaci di attribuire “merito” o “demerito” ad una certa azione, sulla base della valutazione che di essa possiamo dare in base alla nostra analisi immaginativa, mentre per Hume tale valutazione dipende esclusivamente dagli effetti di quella stessa azione che si possono cogliere sulla base del contagio emotivo.

Come dar conto, allora, di quelle azioni che producono lo stesso effetto ma che pure suscitano valutazioni morali differenti? Immaginiamo che una persona faccia una grossa donazione ad un ospedale. Hume direbbe che tale azione è giusta sulla base del contagio emotivo che proveremmo nel pensare ai malati e ai benefici che questi potrebbero ottenere in conseguenza a tale donazione. Per Smith le cose sono un po' più complesse.

Egli, infatti, per elaborare un giudizio morale, prenderebbe in considerazione anche l’“appropriatezza” e l’“inappropriatezza” di tale donazione, vale a dire «la causa od oggetto che provoca una certa azione». Un giudizio morale pertinente, sostiene Smith, non può mancare di considerare, assieme alle conseguenze di una data azione, anche le condizioni che l'hanno resa possibile e le intenzioni che l'hanno generata.

Per quanto riguarda la donazione occorrerebbe considerare, per esempio, se questa appare generosa o meno non solo in termini assoluti, ma in relazione al patrimonio del donatore – l'esempio evangelico del ricco e della vedova che fanno la loro offerta al Tempio ci dice molto al riguardo. Occorrerebbe, poi, considerare anche le possibili ragioni di tale donazione: puro altruismo, un parente malato o, per esempio, il desiderio di ottenere sgravi fiscali? La stessa azione, a parità di conseguenze, dovrebbe generare, per Smith, differenti valutazioni morali al mutare delle circostanze e delle intenzioni che caratterizzano l'azione stessa.

«Il giudizio morale - conclude a riguardo Rasmussen - necessita non soltanto di un punto di vista esterno o di un osservatore, come nella teoria di Hume, ma di un’attiva assunzione della prospettiva di ciascun individuo implicato in una data situazione. Sebbene Hume e Smith pongano entrambi la simpatia al centro delle loro rispettive teorie morali, dunque, il modo di concepire la simpatia dovuto a Smith, più ricco, rende possibile una teoria morale proporzionalmente più ricca».Le implicazioni che derivano da queste differenze tra i due pensatori risultano significative rispetto al modo in cui i due affrontano il tema della giustizia, nostro vero centro di interesse. Mentre per Hume, infatti, la valutazione circa un’azione, giusta o meno, dipende, come abbiamo visto, dalla sua utilità, per Smith il ruolo decisivo viene giocato dall'“indignazione” che ci suscita tale azione. Ma l'indignazione varia in relazione non tanto e non solo dalle conseguenze che una data azione genera, ma dalle alternative che l’agente aveva a disposizione nel momento in cui ha scelto di comportarsi in un certo modo. Ciò che egli avrebbe potuto fare e ha scelto di non fare. In fin dei conti osservare una persona che sta morendo e non far nulla per salvarla non è la stessa cosa che osservare la morte di quella stessa persona dopo aver cercato in ogni modo di salvarla. L’idea di simpatia considerata da Smith riesce a cogliere questa “sfumatura”, quella di Hume invece no. Una “sfumatura” di grande rilevanza e dalle importanti implicazioni politiche.

Proviamo a pensarci la prossima volta che sentiamo il quotidiano bollettino dei morti affogati nel Mediterraneo.

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