I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 02/07/2023
David Hume e Adam Smith sono due giganti del pensiero occidentale, oltre che allievo e maestro e protagonisti di una grande amicizia. Abbiamo visto nel Mind the Economy della settimana scorsa quanto il pensiero di Hume abbia influenzato quello di Smith e abbiamo anche iniziato a vedere i punti nei quali, invece, le loro posizioni divergono. Rispetto alle convergenze abbiamo sottolineato, innanzitutto, quella relativa al metodo filosofico. Il tentativo di trovare una fondazione naturalistica della morale. Una fondazione che esuli dal riferimento ad un volere divino e che si incardini, invece, sulla natura convenzionale dei giudizi umani.
La preminenza delle passioni ed emozioni
Il secondo punto di contatto riguarda la preminenza attribuita alle passioni e alle emozioni rispetto alla ragione. Celebre al riguardo la posizione che Hume esprime nel Trattato sulla Natura Umana secondo cui “La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse”. Il terzo punto di contatto tra i due è legato al ruolo che entrambi attribuiscono alla “sympathy”, la capacità naturale attraverso cui può ottenersi l’obiettività dei giudizi necessaria all’elaborazione di un punto di vista imparziale che possa costituire un valido metro di valutazione rispetto alle regole di giustizia.
Le differenze tra Hume e Smith
Per quanto riguarda le principali differenze tra i due amici esse riguardano, invece, quattro temi principali: proprio il concetto di sympathy, che abbiamo a lungo discusso la settimana scorsa, ma anche l’idea di utilità, il ruolo della religione ed il concetto di giustizia. Tema, quest’ultimo, su cui ci concentreremo oggi.
Hume era convinto del fatto che l’idea di giustizia – “virtù artificiale” – come egli la definisce per via della sua natura convenzionale, si fosse evoluta e consolidata grazie all’utilità, ai benefici, cioè, che le conseguenze di una condotta giusta producono per i singoli, in particolare con riferimento alla tutela della proprietà privata. La giustizia, dunque, acquisterebbe la sua natura morale e vincolante in quanto funzionale all’interesse individuale, un “autointeresse illuminato”, per così dire. Smith va oltre questa posizione affermando, invece, che la giustizia nasce da un senso naturale di indignazione - resentment, lo chiama lui. Tale indignazione si genera nel processo di immedesimazione che, attraverso la sympathy, mettiamo in atto nei riguardi delle vittime di atti ingiusti ed è la stessa indignazione che ci spinge a voler punire i responsabili dell’ingiustizia.
Scrive Smith ne La Teoria:“Quando un singolo uomo viene ferito, o ucciso, pretendiamo la punizione del male che gli è stato inflitto, mossi non tanto da una preoccupazione per l’interesse generale della società, quanto da una preoccupazione proprio per quell’individuo che è stato leso (…) Allo stesso modo, come simpatizziamo con la sofferenza del nostro simile ogni volta che vediamo la sua angoscia, allo stesso modo prendiamo parte alla sua ripugnanza e avversione per qualsiasi cosa l’abbia causata (…) Il sentimento di partecipazione indolente e passivo con cui lo accompagniamo nelle sue sofferenze cede subito il posto a quel sentimento più vigoroso e attivo che ci fa condividere lo sforzo che lui fa per respingerle, o per vendicarsi di ciò che le ha procurate. Questo avviene in modo ancor più forte quando chi ha causato quelle sofferenze è un uomo. Quando vediamo un uomo oppresso e offeso da un altro, la simpatia che proviamo per l’angoscia della vittima serve solo a suscitare il nostro sentimento di partecipazione verso il suo risentimento contro chi l’ha offeso (…) la Natura, prima ancora di qualsiasi riflessione sull’utilità della punizione, ha stampato nel cuore umano, a caratteri nettissimi e indelebili, un’immediata e istintiva approvazione per la sacra e necessaria legge del taglione”.
È interessante notare come alcuni recenti studi hanno messo in evidenza di un meccanismo molto simile a quello descritto da Smith. Questi studi mostrano come la maggior parte di noi sia disposta a spendere delle risorse per punire qualcuno che si è comportato in maniera ingiusta non solo nei nostri confronti, ma anche quando a farne le spese sono altri. Un comportamento che è per questo stato definito third-party punishment, la punizione da parte di terze (Fehr, E., Fischbacher, U., “Third-party punishment and social norms”. Evolution and Human Behavior 25, pp. 63-87, 2004). Un altro studio condotto dal neuroscienziato Alan Sanfey e dai suoi colleghi ha evidenziato, inoltre, che davanti a situazioni ingiuste nel nostro cervello si attivano le stesse aree neurali che sono legate alla manifestazione delle emozioni negative come rabbia e disgusto (“The neural basis of economic decision-making in the Ultimatum Game”, Science 300(5626), pp.1755-8, 2003). E questo avviene non solo quando noi siamo coinvolti in prima persona ma anche quando siamo solo spettatori di un’ingiustizia. In questo caso la disponibilità a punire chi si è comportato in maniera ingiusta verso un soggetto terzo deriva da una combinazione di empatia nei confronti della vittima e di risentimento nei confronti del colpevole (Batson, C., et al. “Anger at unfairness: is it moral outrage?”. European Journal of Social Psychology, 37, pp. 1272–1285, 2007).
Il senso di giustizia e la ribellione contro l’ingiustizia, dunque, sono per Smith tutt’altro che virtù artificiali, come sosteneva Hume; sono piuttosto passioni naturali che affondano la loro radice nella nostra psicologia più profonda.
Il disaccordo tra gli studiosi
Il secondo punto di disaccordo tra Hume e Smith relativamente al tema della giustizia si riferisce al fatto che mentre per il primo la disapprovazione verso una condotta ingiusta è generata dalla considerazione dei problemi che questa può generare per la società nel suo insieme, per Smith, al contrario, la nostra reazione negativa discende dalla simpatia che proviamo per l’individuo o gli individui che sono vittime di tale ingiustizia. Infatti “Tutti gli uomini, anche i più stupidi e irriflessivi – scrive Smith - detestano la frode, la perfidia e l’ingiustizia e provano piacere nel vederle punite. Ma pochi hanno riflettuto sulla necessità della giustizia per l’esistenza della società, per quanto ovvia tale necessità possa apparire”.
Smith continuerà a lavorare a lungo alla sua teoria della giustizia che inaugura ne La Teoria dei Sentimenti Morali e che verrà poi riproposta nelle lezioni del 1762-63 che terrà all’Università di Glasgow, i cui appunti andranno a comporre le Lectures on Jurisprudence. In questa seconda fase Smith considererà come ingiusta ogni situazione nella quale “qualcuno è privato di ciò a cui aveva diritto e che poteva giustamente esigere dagli altri, ovvero quando gli facciamo un danno o un male senza causa”, cioè in ogni situazione nella quale viene violato un legittimo diritto. In questo senso, dunque, come spiega Vernon Smith, premio Nobel per l’economia e originale interprete di Adam, la giustizia non è che un “residuo” (Smith, V., “The Core of the Classical Liberal Tradition: Adam Smith’s Concept of Justice”. Independent Institute, 2017). La giustizia assomma, infatti, all’“insieme infinito di azioni consentite, rimanenti dopo aver specificato l’insieme finito e limitato di azioni proibite e le corrispondenti sanzioni.
Smith considerava la società come un insieme di individui volti alla ricerca del miglioramento socio-economico attraverso il controllo di azioni che la nostra esperienza comune ci porta a giudicare come negative piuttosto che attraverso azioni collettive progettate per ottenere futuri ipotetici benefici. Così scrive Vernon Smith e conclude che proprio per questo, grazie a questa visione “residuale” della giustizia che Adam Smith è riuscito ad “opporsi coraggiosamente alla schiavitù, al colonialismo, all’impero, al mercantilismo e alla tassazione senza rappresentanza in un momento in cui tali opinioni erano del tutto impopolari”.