L’anima e la cetra/20 - L’arte di contare i giorni è essenziale eppure raro mestiere spirituale
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 9/08/2020
"Nel tempo in cui Dio creò tutte le cose, il sole creò. Il sole nasce, muore e ritorna. E la luna creò. La luna nasce, muore e poi ritorna… Anche l’uomo creò. L’uomo nasce e muore e non ritorna più."
Canto sudanese dei Denka
Il salmo 90 ci ricorda che si può vincere la fugacità dell’esistenza intonando il nostro cuore con quello dell’universo. E poi, ogni mattino, continuare il nostro lavoro.
All’origine della vita spirituale c’è un’esperienza dell’assoluto. Una esperienza rara che accade, a ogni età, quando intuiamo che siamo solo un granello di sabbia in un mare infinito, che il mare e noi abbiamo un senso, ed è lo stesso senso. Se la vita filosofica inizia con la meraviglia di essere-al-mondo, la vita spirituale inizia con lo stupore di questo duplice-unico senso; quando capiamo che siamo farfalla effimera, nasciamo per volare un giorno solo, ma l’ebrezza di quel "folle volo" è la stessa ebrezza dell’universo. La fotografia che fissa un solo attimo può essere bellissima come il film più bello, e persino più luminosa. Il nostro tempo è un attimo, ma ha la stessa qualità del tempo di Dio. Perché l’assoluto è entrato nel nostro tempo, noi nel suo, e sono diventati lo stesso tempo. E quando riusciamo a intonare il nostro cuore con quello dell’universo sentiamo lo stesso battito, scopriamo che i due pulsano all’unisono – la preghiera, forse, è solo questo.
I salmi sono pieni di questo stupore, cantato in molti toni, tanti quanti sono le emozioni e i sentimenti umani. Toni diversi, non sempre concordi, perché mentre eseguiamo il nostro esercizio del vivere coscienti che sarà "subito sera", la lode si intreccia con la tristezza, la riconoscenza di essere vivi e amati sfiora l’invidia per Dio e per la sua eterna aurora. Non capiamo molta preghiera senza prendere sul serio anche la sofferenza che nasce dall’invidia per Dio. Questa tipica e paradossale sofferenza dell’uomo religioso, nei salmi è ancora più tremenda perché in quell’umanesimo la morte non è continuazione diversa dello stesso volo sotto l’ala di Dio, ma è tramonto senza nuova alba – «Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a darti lode?» (88,11). Ci vuole molta fantasia teologica per trovare nel Salterio, in Qoelet o in Giobbe anticipazioni della resurrezione cristiana dei morti. Sta in questa assenza radicale di consolazione il grande dono dell’Antico Testamento, che non collocando il paradiso oltre la morte ci invita a trovarlo quaggiù, dove c’è davvero. Se il nostro unico volo è questo sotto il sole, se non abbiamo una seconda possibilità, allora la nostra storia è tanto breve quanto seria e importante. Davanti all’esperienza della vanitas della vita, la Bibbia sa che una delusione vera è preferibile a un’illusione finta, che la disperazione può essere una buona via d’accesso all’esistenza, certamente migliore delle consolazioni inventate. La resurrezione di Gesù fu annunciata in un umanesimo dove non doveva esserci, ed è stupenda perché ci è annunciata da una Bibbia che fino a quel "primo giorno dopo il sabato" non la conosceva.
Il Salmo 90 è una vetta, un ottomila metri del Salterio. La poesia si intreccia con la sapienza, la profezia con la teologia: «Signore, tu sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione. Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio. Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: "Ritornate, figli di Adam". Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di guardia nella notte» (Salmo 90,1-4). Tu sei da sempre e per sempre, noi sentinelle da unico turno di veglia, profeti per una sola notte (Isaia 21).
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