Opinioni - In occasione della VII Giornata mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco, studiare insieme soluzioni di progresso
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/11/2023 *
La povertà è parte della condizione umana. L’essere umano, l’Adam, è anche un povero. Lo è quando nasce e per molti anni della sua infanzia, lo è quando si ammala, quando invecchia, lo è quando muore. Perché la povertà non è altro che una declinazione della fragilità, della non-autonomia e della vulnerabilità, che sono dimensioni costitutive della vita di ogni donna e di ogni uomo, ieri, oggi, e sempre, sebbene la storia dell’umanità sia anche una buona lotta per ridurre la fragilità dell’esistenza. La povertà, dunque, non riguarda gli altri: riguarda noi. Al tempo stesso, le povertà sono molte, e il riconoscere la comune condizione di povertà degli esseri umani non deve distrarci dal distinguere le forme della povertà, dall’individuare quelle ingiuste, evitabili, alleviabili ed eliminabili.
Il Vangelo ha generato una sua propria visione della povertà, diversa e rivoluzionaria, che non è diventata cultura. Il Cristianesimo ha seguito l’insegnamento di Gesù in molte cose, poco nella sua visione della povertà. Gesù ha chiamato i poveri ‘beati’, ha proposto ai suoi seguaci la rinuncia alla ricchezza per ottenere una libertà diversa e più grande. E poi, alla sua sequela, è arrivato Francesco che amò la povertà alla follia, al punto di fare dell’altissima povertà l’ideale della sua vita, modello per i suoi tanti fratelli e sorelle che continuano ancora a scegliere liberamente la povertà evangelica anche per liberare coloro che la povertà non la scelgono ma la subiscono.
Per questa ragione, nei vangeli la parola povertà ha una semantica diversa da quella usata dai governi, dagli economisti, dalle istituzioni. Perché la povertà cristiana non indica solo un male, una mancanza, una malattia da combattere, e se insieme alle povertà cattive dovessimo eliminare dalla terra anche le povertà di Gesù, di Francesco, di Madre Teresa e dei loro tanti seguaci (cosci e inconsapevoli) il mondo sarebbe davvero molto più povero. La povertà del Vangelo ha uno spettro molto ampio, che va dalla tragedia della miseria fino alla beatitudine di chi sceglie la povertà come via di liberazione e auto-liberazione per una diversa felicità.
Papa Francesco ha scelto per questa settima Giornata mondiale dei poveri una bella frase tratta dal Libro di Tobia: “Non distogliere lo sguardo dal povero” (Tb 4,7). La Chiesa è interessata prima di tutto al povero, ai nuovi poveri di oggi (nelle solitudini, nei cambiamenti climatici, nella perdita di senso del vivere) e a quelli di ieri; quindi è interessata alle persone concrete, solo dopo al concetto astratto di povertà. La realtà è superiore all’idea, quindi i poveri sono più importanti della povertà. Ecco perché è molto significativo che oggi sia la giornata dei poveri. È necessario non distogliere lo sguardo dalle persone che si trovano in condizioni di povertà: guardarle, poi toccarle, abbracciarle.
Sono molti i significati di questo invito a non distogliere lo sguardo dal povero, a vederlo, guardarlo. Il nostro capitalismo non capisce i valori della povertà, non stima i poveri, li disprezza perché ne ha paura di riconoscere la propria povertà (l’aporofobia), e quindi li nasconde illudendosi che distogliendo lo sguardo si possano eliminare i poveri. Ogni cura di un povero inizia dal decidere di volerlo vedere, da qualcuno che chiama quella sua povertà e le grida: ‘vieni fuori’.
Una importante dimensione del ‘non distogliere lo sguardo dal povero’ l’ha indicata Papa Francesco ai giovani di ‘The Economy of Francesco’: “Anche nella teologia abbiamo troppe volte ‘studiato i poveri’ ma abbiamo poco studiato ‘con i poveri’: da oggetto della scienza devono diventare soggetti, perché ogni persona ha storie da raccontare, ha un pensiero sul mondo: la prima povertà dei poveri è essere esclusi dal dire la loro, esclusi dalla stessa possibilità di esprimere un pensiero considerato serio. Si tratta di dignità e rispetto, troppo spesso negati” (6 ottobre 2023). Troppo rari sono infatti i pensieri, i libri, gli studi dei poveri sulla loro condizione e sulla condizione di tutti. Questa mancanza di ascolto e di riconoscimento del loro punto di vista è l’origine di molta sofferenza delle persone povere. Senza ascoltare cosa i poveri pensano di loro stessi e dei loro problemi anche le azioni esterne sono inefficaci se non dannose. Tutto questo si chiama sussidiarietà, che porta a riconoscere che la prima competenza, quella davvero essenziale per uscire dalle povertà cattive, è la competenza che possiede chi vive dentro quella concreta e specifica condizione di povertà. Chi è più distante ha altre competenze preziose e necessarie solo se e quando arrivano dopo, come aiuto, sussidio, alla quella prima competenza che ha solo chi vive dentro il suo problema, quasi mai riconosciuta come tale.
Ecco perché questa giornata dei poveri potrebbe essere una preziosa occasione per ascoltare il pensiero, le parole, le idee dei poveri, sulla loro vita e anche sulla nostra, perché il mondo visto dalla prospettiva di Lazzaro che raccoglie le briciole dei nostri lauti pasti rivela paesaggi e prospettive diverse e necessarie per comprenderlo. Diamo loro la parola, non per compassione ma per stima e interesse. Ascoltiamoli, non distogliamo lo sguardo dal loro volto e neanche dal loro pensiero e dalle loro parole. Non basta guardare i poveri: occorre anche ascoltare la loro narrazioni del mondo, riconoscere il loro diritto a raccontare storie, visioni, sogni. Nessun povero coincide con la sua povertà, perché è più grande del suo problema, ed è in questa eccedenza tra la persona e la sua povertà dove si trova il principio della sua liberazione.
Lo sguardo sul povero è essenziale, ma non basta. Il Vangelo ci offre anche qui spunti importanti. Nel racconto dell’episodio del cieco di Gerico si legge: “Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare… Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse” (Lc 18,35-38). Ogni povertà non-scelta (come era la cecità nel mondo antico) è anche l’impossibilità di gridare perché chi è attorno al povero gli strozza il grido in gola - per vergogna, per non disturbare, per illudersi che le povertà non esistano. Allora insieme al non distogliere lo sguardo è essenziale non distogliere l’orecchio dal grido del povero - nella Bibbia l’orecchio è più importante degli occhi: Dio non si vede, ma è una voce che parla. Il cieco di Gerico nonostante i tentativi dei discepoli di zittirlo “gridava ancora più forte” (18,39), e Gesù lo ascoltò e lo guarì; a ricordarci che il primo diritto fondamentale del povero è il diritto al grido, e il primo dovere fondamentale degli uomini e delle donne è l’ascolto responsabile di quel grido.
Infine, un grande meccanismo collettivo che il nostro sistema economico-sociale ha trovato per distogliere lo sguardo dal povero è la meritocrazia. Questa incontra facili consensi perché si presenta come una nuova e migliore forma di giustizia e persino di inclusione dei poveri; ma appena si va a guardare i frutti che genera si capisce immediatamente che la meritocrazia, con la sua retorica del merito, è essenzialmente una ideologia che si illude di non vedere il povero cambiandogli semplicemente nome, chiamandolo demeritevole. La meritocrazia sta sempre più assumendo le sembianze di una religione, e quindi di una teodicea, cioè una spiegazione e giustificazione del male e del disordine del mondo. Di fronte al dato di fatto che sulla terra gli esseri umani hanno sorti e fortune diverse, questa apparente ingiustizia dell’ordine sociale viene spiegata e giustificato ricorrendo ad un principio etico che ristabilisce l’ordine razionale e giusto che appare violato: se sei ricco la tua ricchezza dipende (o deve dipendere) dai tuoi meriti, e quindi se sei povero la tua povertà è frutto del tuo demerito. Così il dato di fatto della povertà (e della ricchezza) diventa un dato di giustizia - il povero merita la sua sventura, come cercavano di argomentare gli amici di Giobbe, che però non si lasciò convincere da quelle antiche teologie del merito.
Il giorno in cui l’ultimo povero si convincerà dei suoi demeriti, i ricchi saranno tranquilli e giustificati nel loro non-sguardo e non-ascolto, il culto meritocratico sarà finalmente perfetto. E i poveri continueranno, invano, a gridare, fuori dal nostro sguardo.
* pubblichiamo qui la versione integrale dell'articolo, pubblicata su Avvenire in forma ridotta
Credits foto: © Sebastiano Cerrino