Agorà - In un libro dal titolo accattivante, l’economista e imprenditore francese entra nel linguaggio dei vangeli come se leggesse un saggio scritto oggi senza alcuna mediazione né storica né teologica
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/01/2019
Una delle novità culturali ed etiche di questo inizio di millennio è il crollo di valore che hanno subito il concetto di competenza e di specializzazione. Grazie alla “democratizzazione” della conoscenza operata dalla rete, abbiamo dapprima iniziato ad arrivare dal medico con la stampa pronta delle medicine e delle cure che ci servivano, scaricate da siti o da blog. Con i social, poi, il fenomeno è esploso, e ciascuno di noi è diventato un opinion leader, in un pubblico che varia dalle poche unità ai milioni di “seguaci”. Poco conta la numerosità dell’audience, ciò che veramente vale è poter scrivere qualsiasi idea su ogni cosa, senza avvertire nessun bisogno di studiare prima di scrivere. Ogni opinione viene livellata nella nuova “social”-democrazia, trasformando ogni ambito a qualcosa di molto simile al tifo sportivo o alle antiche fedi politiche. Il famigerato relativismo, tanto evocato dalla teologia dei decenni scorsi, oggi trova nella rete il suo primo campo di applicazione. Siamo tornati a “flatlandia”, in una terra fantastica ad una sola dimensione, nella quale ci mancano sia l’altezza sia la profondità delle parole e delle idee. Era dunque inevitabile che questo processo non arrivasse a sfiorare anche la teologia (la religione l’aveva raggiunta ben prima di internet, essendo il campo spirituale da sempre uno dei più affollati da falsi profeti e ciarlatani).
Da qualche anno anche io ho iniziato a commentare libri biblici, pur non avendo una formazione specifica da biblista. Ho frenato questo mio desiderio per molto tempo, perché ero terrorizzato dal crescente numero di dilettanti che usavano la Bibbia senza aver fatto nessun sforzo per entrare dentro un mondo estremamente complesso e pieno di insidie e trappole per chi vi arriva senza un equipaggiamento adeguato. Anche per la Bibbia vale il noto motto di Baden Powell: «Non esiste buono o cattivo tempo, ma solo buono o cattivo equipaggiamento »: se quindi si entra in un testo biblico con i vestiti sbagliati, è sempre cattivo tempo e tempesta, per chi scrive e ancor più per chi legge. Questa regola vale per ogni viaggio dentro la Bibbia, inclusi quelli morali o spirituali, dove gli errori e i vestiti dei viaggiatori sono spesso a dir poco inadeguati – nel tempo del disprezzo delle competenze, ormai anche Gesù è sempre più usato come un guru che ci offre frasi perfette per ogni tipo di power point.
L’equipaggiamento dell’autore del libro Gesù Economista, il francese Charles Gave (IBLLibri, pagine 112, euro 15,00), è simile a quello di chi ha cercato di scalare il Monte Rosa con tailleur e tacchi a spillo: si è dovuto fermare nel parcheggio dove ha lasciato l’auto, da lì ha guardato quell’alta montagna con il cannocchiale, e poi ci ha parlato di orizzonti, fiori e di stelle alpine che non ha mai visto, di ferrate e passaggi che non ha mai fatto. Li ha solo visti da lontano, talmente da lontano da non capire nulla dell’esperienza che fa chi quei fiori li vede e odora davvero, di chi ha messo gli scarponi sulle pietre e sulla neve. La Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, è piena di ispirazioni e di domande su faccende economiche. Si potrebbero scrivere decine di volumi sull’economia della Bibbia (e qualcuno anche sulla Bibbia nella tradizione dell’economia). Ma le parole economiche della Bibbia sono state scritte tra i venticinque e i venti secoli fa, in un universo religioso, politico e sociale talmente diverso dal nostro da non poterlo capire senza un grosso specifico investimento culturale e teologico. Quando in quei testi leggiamo (in ebraico o in greco) parole come denaro, monete, prestiti, mercato e mercanti, nella stragrande maggioranza dei casi non dobbiamo pensare ai nostri denari e ai nostri imprenditori, perché tra di loro hanno in comune troppo poco per poter essere trattati come specie di un unico genere. E se lo facciamo diciamo sciocchezze, che nel migliore dei casi sono inutili, e dannose nel peggiore (se qualcuno crede in quello che legge). Pensiamo, per un esempio presente in questo libretto, alla parabola dei talenti. Per tentare di comprendere almeno le intenzioni di Matteo (per non parlare delle difficoltà, quasi insuperabili, di rintracciare le intenzioni del Gesù storico), dovremmo cercare di capire perché colloca la parabola in quella specifica parte del suo vangelo (discorsi escatologici), quale comunità aveva di fronte e quali problemi affrontava, la sua teologia, il contesto storico specifico, e molto altro. Altrimenti facciamo il peccato mortale di prendere una metafora economica (i talenti), usata originariamente dall’evangelista forse per dare un messaggio non economico (la logica del regno dei cieli), e poi riportarla all’ambito economico e farla diventare una lode del rischio imprenditoriale e magari della speculazione finanziaria; e così quel “padrone” duro e severo (identificato immediatamente e senza nessuna problematizzazione con Gesù stesso) dà al capitalismo la benedizione e la consacrazione eterna. Errori simili li troviamo anche sul lato opposto dello spettro. Pensiamo all’episodio, centrale nei vangeli, della “cacciata dei cambiavalute dal tempio”, un testo che non manca nel libro di Gave. Si sbaglia completamente la lettura di quel brano se, come fa l’autore, non teniamo presente che il tema centrale in quell’episodio è la critica che Gesù (citando Geremia) fa alla visione economica o retributiva della fede, alla concezione mercantile della religione. La sua non è, quindi, una critica al mestiere del mercante ma all’idea economica di religione e dei sacrifici, che vedeva Dio come un contabile che riduce e aumenta i nostri debiti in base al valore delle offerte che gli facciamo nel tempio un Dio opposto al Padre amore rivelatori da Gesù. Questa consapevolezza è assolutamente assente in questo economista - imprenditore francese, che entra nel linguaggio dei vangeli (e un po’ anche dell’antico testamento) come leggesse un saggio scritto oggi o ieri, senza nessuna mediazione né storica né teologica. Peggio ancora quando prova a fare considerazioni storico-teologiche, che per essere utili richiederebbero una fatica del concetto che l’autore non ha mai fatto. E così leggiamo, con non poca sofferenza: «Tutto è in Dio (Abramo), Tutto è nella Legge (Mosè), Tutto è nell’Amore (Cristo), Tutto è nel Denaro (Marx), Tutto è nel Sesso (Freud), Tutto è relativo (Einstein)». Una frase che ha la rara dote di offendere molte persone e discipline insieme, inclusa la Bibbia. Oppure, dopo aver commentato il passaggio dell’obolo della vedova, aggiunge: «Il messaggio di Gesù è semplice: affinché i valori possano concretizzarsi in azioni, occorre che i prezzi siano liberi» . E ancora: «Perché Gesù si prende gioco della giustizia sociale? Perché la giustizia sociale è una questione collettiva ». Più avanti: «Come abbiamo già spiegato [sic!], Gesù decide di interessarsi solamente di un individuo alla volta. Invece di un buon contratto esteso, di una enorme convenzione collettiva, prende la decisione di fare solamente contratti individuali, rinnovati a ogni transazione ». Mi fermo qui.
È facile oggi mettere a reddito anche Gesù, usandolo per comporre un titolo accattivante, un indice con temi importanti (giustizia sociale, ricchezza, politica, teoria del valore, i diritti di proprietà, le rendite …), e poi vendere una merce che non esiste. Non si fa così. Non è così che si rispettano i lettori, anche quando questi libri nascono dalla buona fede di autore e editori, e la voglio concedere anche a Charles Gave. Queste operazioni sempre fanno male a chi tenta di instaurare un dialogo serio e rispettoso tra la Bibbia e le discipline laiche moderne, e allontanano ancora di più i biblisti dagli economisti.