Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa...
di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022
La pandemia, prima ancora la crisi climatica, la guerra in Ucraina e le sue implicazioni sui costi e sui prezzi di quasi tutto, dovrebbero farci riflettere molto di più sul rapporto tra il privato e il pubblico. Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico, convinti che il movente del profitto privato fosse l’unica motivazione per far impegnare lavoratori e imprenditori. E così ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitali e capitalisti privati, e i profitti che da questi beni comuni nascono finiscono in pochissime mani già molto ricche.
Il paradosso di tutto ciò è che la prima entusiasta di questo dogma religioso – più privato uguale più motivazioni e quindi più efficienza – è stata e continua a essere la sinistra europea, che è nata da una critica al capitalismo e al profitto. E così, di fronte all’aumento del costo dei carburanti che, insieme all’inflazione, giorno dopo giorno sta affamando le famiglie a medio-basso reddito (ce ne accorgeremo tra qualche mese), si sarebbe potuto ridurre almeno il pedaggio delle autostrade, se, come ci fu promesso dopo il crollo del ponte Morandi, queste fossero tornate in mani pubbliche. Se c’è un business a profitto sicuro questo è proprio la gestione delle autostrade, ancor più in un Paese lungo e turistico come l’Italia.
Ci hanno convinti che il privato è il paradiso della nuova economia, il pubblico è l’inferno, e il non-profit il purgatorio. Da economista e da storico del pensiero economico non riesco ancora a capire come questa idea malsana e sbagliata si sia potuta affermare. Conosco le ideologie e i demagoghi, ma aspetto ancora qualcuno che mi dimostri perché i beni comuni sono gestiti meglio da privati che dal pubblico. L’Italia ha inventato i liberi comuni, ha inventato già con i Romani e poi nel Medioevo la gestione comune delle risorse collettive. Abbiamo fatto autentici miracoli economici, civili e artistici, perché le città erano forme di cooperative, consorzi di cittadini che gestivano insieme molte attività politiche e anche molte imprese.
Il capitalismo delle privatizzazioni è prodotto d’importazione, da Paesi (come gli USA e l’Olanda) che poi in industrie chiave e importanti sono anti-liberisti, come tutti sappiamo. Dobbiamo ripensare, subito e profondamente, il rapporto tra il pubblico e il privato. I beni comuni globali ambientali gestiti con la logica privata non solo non sono più efficienti ma vengono distrutti: a riguardo basterebbe leggere quanto ha scritto l’ecologo Garrett Hardin circa la «tragedia dei beni comuni». E lo stiamo vedendo, e ogni giorno lo vediamo di più.
La sanità e i trasporti sono altri beni comuni dove il profitto privato è troppo poco, c’è bisogno di principi, norme e valori che tengano presente la dimensione del Bene comune: in alcuni settori anche gli interessi privati possono generare il Bene comune (scarpe, vestiti, forse nella frutta), ma in altri ambiti i valori da tutelare sono talmente importanti e decisivi da doverli gestire senza essere guidati dagli incentivi dei profitti privati, che sono troppo deboli per le cose davvero cruciali. Queste cose le sapevamo in passato. Poi sono arrivati i nuovi consulenti, figli delle business school, con poca cultura umanistica e molto inglese, e hanno deciso che il privato fosse la Terra promessa. Ci hanno convinto, hanno convito anche i politici, e ora stanno convincendo praticamente tutti, persino le Chiese. Quando ci accorgeremo di questo imbroglio e lo chiameremo bluff?
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA