La democrazia deve entrare anche nella vita economica. Chi può governare l’economia di oggi, infatti, sono solo i cittadini, cioè noi. Ma occorrono dei cambiamenti importanti.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/11/2018
Una virtù del mercato oggi particolarmente preziosa si chiama partecipazione. Nel Novecento, la partecipazione era associata alla politica, non al mercato. I sindacati hanno portato la partecipazione nelle grandi imprese, ma nel consumo o nel risparmio la partecipazione, e con essa la democrazia, è stata considerata una parola estranea, o quantomeno molto marginale.
I consumatori, si dice, votano ogni volta che entrano in un supermercato o che cliccano per un acquisto online, perché, come in politica, selezionano e premiano un’impresa o una banca tra le molte possibili. Questa coscienza deve continuare a crescere per fare sempre più la spesa «con la testa», imparando a vedere nei prodotti anche le loro «calorie morali» e gli «zuccheri etici».
Ma anche se diventassimo tutti consumatori critici, non basterebbe: la partecipazione deve andare oltre. Se ci limitassimo a questo sarebbe come dire che la democrazia in politica si traduce solo nel voto, e poi, una volta eletti parlamento e governo, i politici potessero fare unicamente gli interessi della parte della popolazione che li ha votati, non riconoscessero la presenza e l’importanza di poteri non elettivi, non rispettassero gli accordi internazionali fatti dai governi precedenti, cambiassero tutto per poi alla fine non cambiare nulla. Questa non sarebbe democrazia ma dittatura della maggioranza che, fin dai greci, conosciamo molto bene nei suoi effetti devastanti per tutti.
La democrazia deve entrare anche nella vita economica. Alcune grandi imprese e banche hanno un peso enorme nella vita delle persone, gestiscono le nostre relazioni, sono diventate la nuova piazza del Paese nella quale ci incontriamo.
Ma i proprietari di queste mega-imprese restano sempre molto pochi, non vengono eletti da nessuno (o da pochissimi), decidono in base ai loro incentivi economici privati, rispondono solo ai mercati e, in minima parte, a qualche legge che riesce a intercettarli prima che abbiano cambiato sede legale. La lenta politica non può controllare questa nuova economia che è velocissima, globale, liquida.
Chi può governare l’economia di oggi sono solo i cittadini, cioè noi. Ma occorrono dei cambiamenti importanti.
Nel Medioevo, la politica non era democratica. Le città sono nate da patti tra famiglie potenti, che non erano elette da nessuno. I villaggi si formavano attorno a signorotti che gestivano il potere e l’economia con forme e strumenti di comando e con molti privilegi. Progressivamente, proprio a partire dalle città comunali, città, regioni e poi stati nazionali divennero proprietà dei cittadini, prima di una minoranza di loro, poi, nel Novecento, di tutti. Questo è stato il primo frutto della democrazia in politica: trasformare città e stati da beni privati a beni comuni.
Un processo lungo, doloroso, a volte violento, ma provvidenziale. Qualcosa del genere dovrebbe accadere anche per l’economia. Se nel prossimo futuro noi consumatori di Facebook o Google, ad esempio, ne fossimo anche azionisti – se, poniamo, con 5 euro potessimo acquistare azioni –, potremmo partecipare alle assemblee per eleggere gli amministratori e per dire la nostra. La democrazia estesa all’economia trasformerebbe le grandi imprese in enormi public company, con centinaia di milioni di azionisti.
Dovremmo, certo, organizzarci per capire come questa democratizzazione potrebbe convivere con innovazione, rischio e responsabilità, che sono i valori dell’impresa capitalistica, cosa non impossibile. La base teorica di questo scenario sta nella trasformazione recente delle grandi imprese.
Oggi i profitti, enormi, di queste imprese non nascono dai loro beni privati, ma da beni comuni liberi, come la conoscenza, la rete, i nostri dati, che esse vendono ma non comprano né pagano.
Quindi è giusto immaginare una distribuzione non solo privata di quella ricchezza. La qualità della vita in comune di questo secolo dipenderà dalla nostra capacità di allargare la virtù della partecipazione dalla politica all’economia. Dobbiamo almeno provarci.