Per le misure contro la povertà si dovrebbero ascoltare i poveri veri, oppure i loro rappresentanti «per vocazione», che si affianchino ai tecnici e ai politici che la povertà la conoscono quasi sempre per sentito dire.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 04/01/2019
Sono stato recentemente ad Assisi, e sono passato a San Damiano, dove si ricorda che «qui il Signore parlò a Francesco». Le vocazioni hanno sempre un luogo e un tempo esatti, sono infinitamente concrete, e orientate a un compito: «Qui, il 20 maggio 1986, incontrai tua madre»; «qui, il 26 agosto del 1990, sentii la chiamata»… All’inizio Francesco pensò che «la chiesa» da riedificare fosse la chiesetta diroccata di San Damiano; solo col tempo si capì che la chiesa da riedificare era in realtà la Chiesa di Cristo. Un fenomeno che si ritrova in molte fondazioni carismatiche e profetiche: si inizia con un compito concreto e puntuale, e poi si capisce che ciò che era oggetto della chiamata era molto diverso.
Quel passaggio ad Assisi è stato però una riflessione anche sulla povertà. Molto della qualità morale di un popolo e di una comunità dipendono da come si affrontano la povertà e i poveri.
I francescani non hanno solo scelto «madonna povertà», hanno anche dato vita nel Quattrocento alle prime banche popolari moderne (i Monti di Pietà), una risposta concreta alla povertà e all’usura in Italia. A dirci, ancora oggi, che la povertà si cura anche con banche, con banche diverse e popolari, perché dove non c’è la banca non arriva l’amore ma l’usura e altra povertà.
Oggi poi abbiamo imparato molto altro sulla povertà, che però non raggiunge ancora i tavoli dei politici. Sappiamo che anche la povertà ha le sue competenze, che possiedono soprattutto coloro che vivono dentro le povertà concrete. Queste competenze mancano sempre nei dibattiti politici, perché chi legifera sulle povertà non è povero, e quindi è incompetente.
Per le misure contro la povertà si dovrebbero ascoltare veramente i poveri veri, oppure i loro rappresentanti «per vocazione», cioè francescani, Missionarie della carità di Madre Teresa, che si affianchino ai tecnici e ai politici che la povertà la conoscono, invece, quasi sempre per sentito dire.
Sappiamo poi che povertà ha natura capitale. Si è poveri per mancanza di capitali, di stock, che si manifesta come mancanza di flussi di reddito. Le persone sono povere perché sono carenti di capitali educativi, sanitari, famigliari, sociali, comunitari…, carenze che fanno sì che queste persone non riescano a produrre sufficienti redditi per «vivere la vita che vorrebbero vivere» (come l’economista Amartya Sen definisce la non-povertà). Se allora si agisce sui flussi (redditi) senza agire sui capitali, le persone restano povere con un po’ di soldi in più, i quali, per l’assenza dei capitali, finiscono naturalmente per essere spesi nei luoghi sbagliati. Gli interventi sui capitali, però, sono di lungo periodo, sono semi piantati per alberi che cresceranno domani, in tempi molto più estesi dei cicli politico-elettorali. E così si continua (magari in buona fede) a dire di combattere la povertà, senza riuscirci perché si curano i sintomi ma non la malattia.
Infine, mentre partivo da Assisi ripensavo che Francesco ci ha insegnato che la povertà non è una parola sempre e solo brutta. La povertà subita è pessima, ma la povertà scelta come liberazione dalle merci per scegliere i beni (relazionali, spirituali…) è una vita di felicità. I francescani scegliendo liberamente la povertà nei secoli hanno liberato molte persone che la povertà non l’avevano scelta. Un messaggio importante, oggi totalmente dimenticato, e per questo più che mai attuale.