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Economia, il cambiamento inevitabile

Le imprese devono cambiare cultura, non per altruismo, né per amore del bene comune, ma semplicemente se non vogliono fallire. Quanto sta accadendo sul fronte ambientale contagerà presto il fronte sociale.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 02/12/2019

Ha fatto discutere molto la dichiarazione che, a fine agosto, hanno fatto 180 manager delle principali multinazionali americane: il capitalismo, affermavano, è cambiato e anche la loro azione doveva adeguarsi al cambiamento. Al di là della credibilità delle dichiarazioni etiche di grandi imprese e banche (che comunque nell’era di Facebook sono più credibili non foss’altro perché chiunque può rovinare con un post la loro reputazione), la domanda cruciale diventa: dove e perché il capitalismo è cambiato o, almeno, sta velocemente cambiando?

Ciò che possiamo dire con certezza è che il modo con cui abbiamo inteso negli ultimi cento anni le imprese e il mercato, sta vivendo una crisi molto più radicale e profonda di quella finanziaria degli anni scorsi. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata una sorta di infarto del sistema ma, una volta messo lo stent, il «paziente capitalismo», con l’aiuto di qualche farmaco, si è sentito di nuovo bene e ha ripreso lo stile di vita precedente. Fuor di metafora: i comportamenti della grande finanza mondiale e dei risparmiatori non sono cambiati dopo la crisi.

Questa volta, invece, in materia ambientale, le cose sembrano molto diverse e più serie. Qui non c’è lo spread, questa sorta di sacramento della religione capitalistica che, sebbene invisibile, rimanda alla «divinità». Qui sono in gioco la stessa sopravvivenza della specie umana, o quanto meno la possibilità di continuare in tanti una vita di buona qualità. La crisi ambientale che in queste dimensioni non ha precedenti nella storia umana, rappresenta un cambiamento radicale delle condizioni di vita, e dice che dobbiamo passare a qualcosa di completamente nuovo.

Tutto ciò gli esperti lo sapevano da tempo ma negli ultimi mesi è avvenuta un’accelerazione velocissima. Il movimento FridaysforFuture e il pensiero e l’azione di papa Francesco (basti pensare alla Laudato si’ e al movimento che ne è sorto), hanno impresso una sterzata alla storia – il discorso di Greta al Summit delle Nazioni Unite è il discorso politico più importante del XXI secolo –. La consapevolezza che il giocattolo si è rotto sta diventando estesa, popolare, universale, sempre meno contestata. Le imprese devono cambiare cultura, non per altruismo, né per amore del bene comune, ma semplicemente se non vogliono fallire.

L’unico vero sovrano del capitalismo è il consumatore con le sue preferenze. Questo è un dogma della religione capitalista, ma è anche la sua grande fragilità, perché se i consumatori cambiano insieme preferenze, le imprese non possono far altro che cambiare velocemente prodotti. Tra qualche mese questa ondata di cambiamento epocale si estenderà dalla plastica (dove è già attiva) a molti altri prodotti: dalle automobili ai voli aerei – il mercato aereo sta subendo un radicale cambiamento: comincia a essere normale che relatori non accettino di venire a convegni per non prendere l’aereo –. Tutto questo le imprese lo stanno intuendo, perché l’imprenditore è un anticipatore delle tendenze dei mercati.

Ma c’è di più: è altamente probabile che quanto sta accadendo sul fronte ambientale si spinga progressivamente e velocemente sul fronte sociale. Le imprese con governance non partecipative e con strutture proprietarie concentrate in pochi azionisti ricchissimi saranno punite dai consumatori, dai giovani in particolare. E l’abnorme diseguaglianza che il capitalismo sta producendo sarà sempre più avvertita come un’altra forma di «effetto serra». Ciò che sta accadendo in Cile dice esattamente che la CO² della diseguaglianza è qualcosa da prendere molto sul serio.

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