Una società vive e cresce finché ogni cittadino sa leggere nella propria ricchezza anche il nome di tutti gli altri che l’hanno in qualche modo generata
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 14/03/2019
Le ricchezze, come le povertà, sono molte. Alcune buone, altre cattive, poche cattivissime. Le grandi culture lo sapevano bene, e così hanno sempre distinto tra felicità e ricchezza. La nostra, perché non è grande, lo ha dimenticato.
La natura plurale e ambivalente della ricchezza è iscritta nel significato stesso della parola. Ricchezza proviene da rex, e quindi rimanda al potere, al disporre, attraverso il denaro e i beni, anche delle persone. Il possesso delle ricchezze è sempre stato profondamente intrecciato con il possesso delle persone e continua a esserlo, e il confine oltre il quale la «democrazia» diventa «plutocrazia» (governo dei ricchi) è sempre fragile, con pochissimi custodi e sentinelle che non siano iscritti nel libro paga dei plutocrati.
Negli ultimi decenni, in tutto l’Occidente lo spettro semantico della ricchezza si è molto impoverito, e noi con esso. Abbiamo costruito un capitalismo finanziario che ha generato molta «ricchezza» sbagliata, che non ha migliorato la nostra vita né quella del pianeta.
Dobbiamo, con urgenza, ricominciare a distinguere le forme della ricchezza, a discernere tra i suoi molti «spiriti». Non è buona la «ricchezza» che nasce dallo sfruttamento dei poveri e dei fragili, quella che proviene dal depredare le materie prime dell’Africa, quella dell’illegalità, della finanza-slot, della prostituzione, delle guerre, del traffico delle droghe, quella che nasce dal mancato rispetto dei lavoratori e della natura. Dobbiamo avere la forza etica di dire che questa pseudo-ricchezza non è buona, e dirlo senza «se» e senza «ma», e poi misurare le diverse ricchezze con indici diversi. Oggi il PIL (Prodotto Interno Lordo) le mette tutte assieme, e non sappiamo se il suo aumento è dovuto alla crescita dell’azzardo e della vendita delle armi.
Da dove nasce, allora, la buona ricchezza? Se guardiamo alle radici profonde della ricchezza buona, che è sempre legata in qualche modo al lavoro umano, vi troviamo il dono. La ricchezza buona dipende dai nostri talenti, ma il talento, ce lo dice la parabola di Matteo, si riceve: non è nostro merito. Dietro la nostra ricchezza ci sono eventi provvidenziali che non sono né merito, né soltanto il frutto del nostro impegno: esser nati in un determinato Paese, amati in una famiglia, l’aver potuto studiare in buone scuole, aver incontrato quell’insegnante e poi quelle persone giuste lungo il nostro cammino, ecc.
Quanti potenziali Mozart e Maria Montessori non sono fioriti solo perché nati o cresciuti in Paesi sbagliati, o perché non amati abbastanza?! Il pagamento delle tasse non è una faccenda di altruismo o di sacrificio, è semplicemente la naturale conseguenza della natura di provvidenza della nostra ricchezza. È un atto di reciprocità, di gratitudine, di riconoscimento che quanto ho ottenuto dalla vita è in piccola parte merito individuale e in grandissima parte provvidenza e dono.
Una società vive e cresce finché ogni cittadino sa leggere nella propria ricchezza anche il nome di tutti gli altri che l’hanno in qualche modo generata, e si sente espressione di una generosità universale.
Se cancelliamo questa natura della ricchezza e quindi la destinazione universale dei beni, perdiamo il senso profondo del legame sociale tra tutte le persone. E smettiamo di soffrire per le povertà che vediamo attorno a noi, e iniziamo a condannare i poveri come colpevoli per non sentirci più responsabili delle loro sventure.