In Ap 3,17 troviamo scritto: «Sono ricco, non ho bisogno di nulla». È l'inganno che si cela dietro il denaro: la promessa che grazie a esso non avremo più bisogno di nessuno, neanche di Dio.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/04/2019
L’economia è un intreccio di vizi e di virtù. Sul suo terreno crescono monete buone e monete cattive, e finché non le usiamo e traffichiamo non possiamo riconoscere la loro vera natura, perché il loro essere buone o cattive si rivela solo all’interno di rapporti umani concreti. Erano denari i trenta ricevuti da Giuda, profitto del peggiore commercio della storia umana, ed erano sempre denari i due pagati dal Samaritano all’albergatore, associandolo così alla sua azione di stupenda prossimità. Nella Bibbia, infatti, incontriamo passaggi dove i molti beni sono benedizione e segno di elezione, dove i beni ci bene-dicono, accanto ad altri brani dove la ricerca di profitti e di ricchezza è pura vanitas e idolatria. In alcuni testi i poveri sono considerati maledetti, in altri gli stessi poveri vengono chiamati beati.
Ma se guardiamo la Bibbia nel suo insieme, e la leggiamo dalla Genesi fino all’Apocalisse, ci accorgiamo che nell’umanesimo biblico la critica al denaro e alla ricchezza è più forte della sua lode. Fino ad arrivare alle parole tremende dette all’angelo della città di Laodicèa: «Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”» (Ap 3,17). Questa frase è importante perché contiene la chiave di lettura di molta critica biblica ed evangelica alla ricchezza: «non ho bisogno di nulla». Sta qui, infatti, il grande inganno, l’illusione tremenda della ricchezza contenuta nella sua seducente offerta di autosufficienza e di indipendenza, nella promessa falsa che grazie a essa non avremo più bisogno di nessuno: e quindi, alla fine, neanche di Dio.
L’ateismo è la condizione naturale di chi confida nelle proprie ricchezze (materiali ma anche morali e a volte spirituali), perché la fede in mammona non è compatibile con la fede-fiducia in Dio.
La differenza fondamentale, e l’alternativa radicale, tra Dio e mammona sta proprio nel diverso tipo di fiducia che richiedono.
La fiducia-fede-affidamento della fede religiosa, la pistis (fede) greca dei vangeli, è un bene relazionale puro, dove non esistono garanzie che l’altro risponderà alle nostre aspettative, perché questa fede non è un contratto che un giudice esterno può far eseguire in caso di mancata prestazione. La preghiera o il sacrificio non sono un prezzo che il fedele paga per ottenere qualcosa dal suo Dio. Quando invece diventa un prezzo, la fede si trasforma in idolatria e magia, anche se in perfetta buona fede. La fede biblica è tutta rischio, estremamente vulnerabile e fragile. La mattina che Abramo salì sul monte Moria non aveva alcuna garanzia che sarebbe arrivato l’ariete a salvare Isacco; forse lo sperava, forse lo pregava a un Dio amante della vita e dei bambini, ma non lo pretendeva dentro un rapporto commerciale. Mentre moriva in croce, Gesù Cristo non aveva nessuna garanzia della risurrezione, e per questo fu il dono più grande.
Il tipo di fede che chiede la ricchezza è invece tutta contrattuale. Non conosce né la gratuità né la vulnerabilità né la sorpresa. La sua fede, la sua pistis (che si legge ancora di fronte alle banche greche), non è un rapporto di reciprocità (né con Dio né con una persona), ma un rapporto con le cose. E, in quanto tale, non ci sorprende mai, perché le cose non sono libere. La terra della fede contrattuale non conosce sorprese; è noiosa, sempre uguale a se stessa e triste. La letizia è il grande sacramento della fede biblica.