The Economy of Francesco

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#EoF - Cambiare il sistema si può: perché non iniziare dal primo settore dell’economia?

#EoFProview - La filiera agroalimentare estesa è il primo settore economico per fatturato in Italia, eppure si basa su un sistema di sfruttamento insostenibile per l’uomo e per l’ambiente. Come invertire la rotta passando dalle buone pratiche a una trasformazione reale del sistema?

di Chiara Subrizi

EoF 2022 1Se Economy of Francesco (EoF) è una comunità di giovani economisti, imprenditori e change makers riunita da Papa Francesco per dare forma a una nuova economia, in questa trasformazione non può che partire dal primo settore economico in Italia, nonché quello che più rappresenta il made-in-Italy nel mondo. 

Parliamo della filiera agricola estesa, primo settore per fatturato in Italia nel 2019 (583 miliardi) e prima voce del bilancio europeo, la filiera si estende dai braccianti, agli agricoltori, all’industria alimentare, passando per un groviglio di intermediari che a ogni passaggio della catena ricaricano il prezzo del cibo che poi troveremo nei nostri supermercati e nei ristoranti.

Purtroppo una tale rilevanza economica è abbinata ad una forte resistenza al cambiamento (causata spesso dal potere delle lobby agricole internazionali) che fa sì che il cibo che consumiamo ogni giorno provenga da uno dei settori a più alto sfruttamento dell’uomo, del suolo e del clima opponendosi alla logica dell’ecologia integrale di Papa Francesco che supera la contrapposizione tra giustizia sociale e ambientale per garantire una sostenibilità a 360 gradi.

Questo articolo proverà a tracciare una rotta per la trasformazione del sistema agroalimentare attraverso il paradigma e il metodo dell’economia di Francesco.

Lo stato di salute della filiera agroalimentare

Per trovare una cura efficace alla malattia di un sistema, bisogna partire da una buona diagnosi. Tuttavia, chi si imbatte nella complicata ricostruzione della filiera agroalimentare si trova davanti a tre realtà:

  1. c’è pochissima trasparenza nei dati, nelle informazioni e nelle relazioni che la regolano;
  2. è insostenibile per gli anelli deboli della catena, braccianti e piccoli produttori;
  3. tutta la filiera si basa su paradosso: il prezzo finale del cibo non lo fa chi produce ma chi compra, ovvero la Grande Distribuzione Organizzata (GDO).

Se fino a circa 50 anni fa il valore aggiunto in agricoltura era redistribuito all’incirca in tre parti uguali tra lavoro, produzione e distribuzione, oggi, la GDO controlla il 75% di cibi e bevande venduti sul mercato, mettendo al sicuro i propri ricavi anche ricorrendo a pratiche commerciali scorrette e garantendosi il nostro tacito assenso poiché assicura il massimo risparmio a noi consumatori.

Si genera allora una duplice guerra tra poveri. Una guerra tra poveri dal lato della produzione tra i due anelli della filiera con minor potere contrattuale – piccoli produttori e i braccianti – e dal lato del consumo perché oggi un cibo “buono, pulito e giusto” non è accessibile a tutti, cosicché chi è più povero sarà più facilmente complice dello sfruttamento di altri poveri.

Per comprendere davvero le dinamiche di ingiustizia all’interno della filiera, dobbiamo considerare che i piccoli produttori devono affrontare:

1) l’incertezza di una produzione che cambia di anno in anno, subendo per primi gli effetti dei cambiamenti climatici quando invece l’industria e la GDO pretendono di fissare il prezzo prima che la raccolta venga fatta;

2) l’eccessiva burocrazia e un eccessivo costo del lavoro quando si sceglie di seguire una via di trasparenza e legalità;

3) l’impossibilità di controllare il prezzo di fattori produttivi come le sementi commercializzate per lo più dalle multinazionali in un sistema di globalizzazione agricola.

Per trovare una cura efficace alla malattia di un sistema, bisogna partire da una buona diagnosi.

In questo contesto, l’unico costo variabile diventa quello della manodopera e il combinato disposto dell’aumento dell’immigrazione e dell’eccessiva precarizzazione e polarizzazione all’interno mercato del lavoro ha fatto sì che si creasse un perfetto “esercito industriale di riserva” per il comparto agricolo, pagato a cottimo tra i 3 e i 4 euro a cassone da 300 kg nel caso dei pomodori e organizzato dai caporali, quando occorre la raccolta a mano di frutta e verdura. Di questa paga, il caporale trattiene una percentuale diretta sul salario essendo loro stessi a decidere chi lavora e chi no.

Addentrandosi nel mondo dei braccianti si scopre, poi, che all’interno dello sfruttamento dei lavoratori ci sono altre pratiche discriminatorie. In particolare:

  1. una discriminazione razzista, in quanto il salario a cottimo può variare in base all’etnia;
    una discriminazione di genere, perché le donne sono pagate fino al 30% in meno degli uomini e spesso subiscono violenze e abusi;
  2. pratiche scorrette come quella del salario di piazza, per cui le grandi industrie creano dei cartelli dove impongono un basso salario all’interno dei distretti agricoli;
  3. la pratica dei falsi braccianti italiani, uomini e donne che non hanno mai toccato la terra ma che risultano assunti in modo fittizio percependo pensione e trasferimenti dallo Stato che dall’irregolarità del solo comprato agricolo già perde ogni anno quasi 4 miliardi solo di Irpef e contributi sociali evasi;
  4. condizioni di vita degradanti tanto che dei 430 mila braccianti vittima di sfruttamento in Italia (di cui l’80% stranieri) più della metà non ha accesso ad acqua potabile e ai servizi igienici e vivono in veri e propri ghetti di lamiere, circondati dai rifiuti
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