Mind the economy

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La libertà politica e quella “quarta critica” che Kant non scrisse mai

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 15/10/2023

La teoria della giustizia nella visione di Immanuel Kant si fonda su un principio basilare che è quello della libertà. Possiamo definire giusta una società che si da un corpus di norme finalizzato alla tutela della libertà d’azione di ogni cittadino così come della libertà dalle ingerenze altrui. Le libertà dei singoli, quindi, devono esercitarsi in modo da essere mutuamente compatibili. Tale concetto generale viene declinato attraverso tre principi costituzionali: la libertà civile, l’uguaglianza giuridica e la libertà politica. Sui primi due ci siamo soffermati nei Mind the Economy delle settimane scorse, del terzo, del principio della libertà politica e delle sue implicazioni, tratteremo ora qui. Kant definisce il principio di libertà politica attraverso l’espressione “indipendenza” o sibisufficentia, in latino e lo descrive come la possibilità per ogni cittadino di essere “co-legislatore” di sé stesso in linea con quanto già discusso da Rousseau secondo cui la vera libertà consiste nell’agire autonomo, nella scelta, cioè, di obbedire a norme autoimposte.

In che cosa consiste la vera libertà?

Scrive Kant a questo proposito nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) “La volontà non è dunque soltanto sottoposta alla legge, bensì le è sottoposta in modo tale che deve necessariamente essere considerata anche come autolegislatrice e appunto perciò prima di tutto sottoposta alla legge (della quale può considerarsi autrice essa stessa)”. Ogni cittadino libero, nell’accezione della libertà politica, lo è perché, nonostante debba obbedire a leggi che vincolano e limitano la sua libertà, tali leggi sono esse stesse espressione della libertà dei cittadini in quanto legislatori di sé stessi. Ne consegue che la legittimità di qualunque legge può derivare esclusivamente dal suo essere “atto di una volontà pubblica dal quale proviene ogni diritto, e che perciò non può recare ingiustizia a nessuno”, come il filosofo sottolinea nel saggio Sul Detto Comune (1793). “Ma ciò non è possibile – prosegue - a nessun’altra volontà se non a quella dell’intero popolo (…); perché solo a sé stessi non si può fare ingiustizia (…) Nessuna volontà particolare può essere legislatrice per un corpo comune”. Le leggi nascono quindi dalla “volontà generale unita” che Kant definisce anche “contratto originario” cui danno vita i cittadini attraverso il loro voto. Se, come abbiamo visto quando abbiamo trattato del principio di libertà civile, questa deriva dalla nostra comune appartenenza al genere umano, tale comune appartenenza non è, in questo caso, sufficiente a garantire a tutti i cittadini uguale accesso al diritto di voto. Questo, infatti, non può essere concesso a tutti ma solo ad alcuni, a coloro, in particolare, che possono essere considerati sui iuris, “loro proprio signori”. Cittadini, cioè, che non dipendono per la loro sussistenza dalla volontà di nessuno altro. Può votare, dunque, solo chi ha una qualche proprietà, intesa anche come una capacità di lavoro manuale, un’arte, o altre particolari conoscenze, che lo mettano nelle condizioni di potersi guadagnare da vivere autonomamente.

Il voto non per tutti, posizione imbarazzante

Questa posizione sul diritto di voto ha creato non pochi imbarazzi agli ammiratori di Kant. In realtà, così ci dicono commentatori accorti come Allen Rosen, il filosofo su questo punto segue una posizione già espressa da Maximilian Petty durante i “dibattiti di Putney” e, come ricorda Roger Scruton, si fa debitore del pensiero dell’abate rivoluzionario Emmanuel-Joseph Sieyès. Maximilian Petty fu promotore dell’estensione del diritto di voto a tutti gli uomini, con l’eccezione degli apprendisti, dei servi e dei mendicanti. Posizioni simili erano sostenute sia da Edmund Burke che da Condorcet, ma su basi completamente differenti. Questi ultimi, infatti, erano convinti del fatto che le classi subalterne dovevano essere escluse dall’esercizio del voto a causa della natura disonorevole della loro attività e per via della loro presunta incapacità a farsi carico del bene della comunità. Per Kant, invece, in linea con la posizione di Petty, l’esclusione dei lavoratori trova giustificazione nel fatto che essi dipendono per la loro sussistenza dalla volontà di qualcun altro e per questo l’espressione del loro voto potrebbe essere viziata da ingerenze esterne.

Chiosa a proposito Allen Rosen, “Coloro che dipendono dagli altri per il proprio sostentamento potrebbero essere o troppo desiderosi di compiacere i loro padroni o troppo suscettibili alle loro pressioni, soprattutto in un sistema di voto aperto, perché i loro voti possano essere considerati veramente espressione della loro volontà” (Kant’s Theory of Justice. Cornell University Press, 1993). La mancata estensione del diritto di voto a quanti dipendono dalla volontà di altri per la loro sussistenza è, quindi, nelle intenzioni di Kant, in realtà, una tutela della rappresentatività degli organi eletti e una precauzione rispetto all’eccesso di ingerenza che potrebbe venire esercitato dai ricchi e potenti. Per quanto riguarda, invece, l’influenza che Kant subisce rispetto al pensiero dell’abate Sieyès occorre rilevare come questi elabori una visione repubblicana basata su una forma di governo rappresentativo che, se da una parte rifiuta le posizioni elitiste basate sui privilegi di nascita o di censo dall’altra respinge ogni forma di democrazia diretta, ritenuta pericolosa almeno tanto quanto la rappresentanza oligarchica. Per uscire da questa polarità che si pone tra sospetto per i privilegi e diffidenza nei confronti del potere diretto delle masse, Sieyès introduce la distinzione tra cittadinanza attiva cui spetta il diritto di voto e cittadinanza passiva cui invece spettano i diritti e la protezione che la legge garantisce. Sulle orme di Sieyès, Kant giustifica la sua adesione al repubblicanesimo e alla forma maggioritaria di governo rappresentativo su basi pragmatiche.

L’accettabilità delle decisioni prese a maggioranza

Sempre nel saggio Sul Detto (1793), scrive “Quando dunque non ci si possa attendere il consenso a tale legge da tutto un popolo, e dunque si preveda di poter raggiungere solo una maggioranza di voti, anzi (in un grande popolo) una maggioranza non direttamente dei votanti, ma solo dei delegati a ciò come rappresentanti del popolo, allora proprio lo stesso principio secondo cui questa maggioranza è sufficiente deve essere il principio supremo della instaurazione di una costituzione civile in quanto accolto con assenso universale, dunque per mezzo di un contratto”. Nei grandi stati si può uscire dall’impossibilità pratica di raggiungere l’unanimità su ogni legge solo attraverso un accordo unanime sull’accettabilità delle decisioni a maggioranza prese dai rappresentanti del popolo. La via media tra il governo illegittimo dei pochi, l’oligarchia di classe, e il governo legittimo dei troppi, la democrazia diretta, si sviluppa per Kant nell’accordo di ogni cittadino ad accettare come valida la regola della maggioranza dei voti dei rappresentanti eletti da ogni cittadino avente diritto. Questa interpretazione è, del resto, coerente con la più generale visione repubblicana kantiana che tiene in un certo sospetto l’idea di democrazia “pura”, come la definisce lui. Se da una parte, infatti, la libertà politica prevede la possibilità per i cittadini di darsi in autonomia le leggi che ritengono più opportune, tale libertà dovrà sempre essere bilanciata e per molti versi limitata dal primo principio costituzionale della libertà civile. La libertà politica potrebbe produrre, infatti, situazioni che violano le libertà civili, per esempio, le libertà delle minoranze che potrebbero essere, per questo, discriminate in vari modi. Questa è la ragione per cui la libertà di legiferare non può mai essere disgiunta, anzi, dev’essere subordinata alla garanzia costituzionale del rispetto delle libertà civili.

La teoria kantiana della giustizia e tutta la sua filosofia politica è complessa e a volte ambigua e contradditoria. Per alcuni commentatori questo è il segno di un’intelligenza senile non più al meglio delle sue facoltà – Hanna Arendt fu tra quelli che popolarizzarono tale interpretazione. Secondo la critica più recente, invece, la filosofia politica kantiana è certo complessa e ambigua ma non per questo meno brillante e ricca di intuizioni anche se, purtroppo, fondamentalmente incompiuta. A questo proposito il filosofo inglese Roger Scruton, è convinto che la filosofia politica kantiana potrebbe costituire, dopo quella della ragion pura, pratica e del giudizio, certamente “Una quarta critica non scritta ma altrettanto degna di studio quanto le altre tre”.

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