I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 08/10/2023
Giusta è per Kant quella comunità capace di garantire la libertà ad ogni suo membro in modo che tale libertà risulti in armonia con la libertà di tutti gli altri. Una posizione centrale del liberalismo moderno che ispirerà pensatori più vicini a noi e tra loro anche molto diversi come il Friederich von Hayek di The Constitution of Liberty (1960) e John Rawls con il suo “principio di libertà”, uno dei due principi fondamentali di A Theory of Justice (1971).
Nell’approccio kantiano, dunque, è giusta una comunità capace di darsi norme giuridiche tali da garantire il requisito fondamentale della compatibilità delle libertà ed è per questa ragione che si può comprendere il perché la sua teoria della giustizia sia fondamentalmente una teoria del diritto (Rechtslehre). Nel declinare l’idea di libertà che il filosofo tedesco pone al centro di tale teoria egli propone una tripartizione di principi. Nel saggio Sul detto comune: “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” (1793) scrive: “Lo stato civile, considerato semplicemente in quanto stato giuridico, è fondato sui seguenti principi a priori: l. La libertà di ogni membro della società, come uomo; 2. L’eguaglianza di ogni membro con ogni altro, come suddito; 3. L’indipendenza di ogni membro di un corpo comune, come cittadino. Questi principi non sono propriamente leggi che lo Stato già instaurato promulghi, bensì principi secondo cui soltanto è possibile una instaurazione dello Stato conforme a puri principi razionali del diritto esterno degli uomini in generale”.
Sul primo principio, la libertà civile, ci siamo soffermati ampiamente nel Mind the Economy della settimana scorsa. È ora il momento di analizzare il secondo principio, quello dell’uguaglianza giuridica, principio che trova il suo fondamento nella nostra comune umanità; umanità da cui discende il diritto alla libertà e che costituisce la giustificazione dell’uguale accesso a tale diritto e della sua uguale tutela davanti alle norme giuridiche.
“L’eguaglianza come suddito – scrive Kant - la cui formula può suonare così: ogni membro del corpo comune ha verso ogni altro diritti coattivi, dai quali solo il capo di tale corpo comune è escluso (poiché egli non è un suo membro, ma colui che l’ha creato o che lo mantiene); capo il quale, soltanto, ha il potere di costringere senza essere sottoposto a sua volta a leggi coattive”. Tutti siamo uguali davanti alla legge, tranne chi incarna il potere della legge, chi la promulga e chi la amministra. Questi è escluso dal principio di uguaglianza perché non è uguale agli altri, essendo esente dalla forza coattiva della legge. “Chiunque in uno Stato stia sotto leggi è però suddito, e dunque sottoposto al diritto coattivo come ogni altro membro del corpo comune; uno solo (persona fisica o morale) escluso: il capo dello Stato, attraverso il quale soltanto può essere esercitata ogni coazione giuridica. Infatti, se anche quest’ultimo potesse essere sottoposto a coazione, non sarebbe il capo dello Stato, e la serie delle subordinazioni andrebbe avanti all’infinito”.
Chiarita la questione relativa all’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, Kant si affretta a specificare che tale uguaglianza giuridica non genera, però, nessun diritto ad altre forme di uguaglianza rispetto al reddito, ad altri beni materiali o perfino ai diritti. Scrive il filosofo: “Questa assoluta uguaglianza degli uomini in uno Stato (…) coesiste perfettamente con la massima diseguaglianza di quantità e grado della loro proprietà, stia essa in una superiorità fisica o spirituale su altri, o in beni di fortuna fuori di essi, o in diritti in generale (che possono essere di molti tipi) rispetto ad altri; così che il benessere di uno dipende molto dalla volontà di un altro (i poveri dai ricchi), che uno deve obbedire e l’altro lo comanda (come il bambino ai genitori o la donna all’uomo), che uno serve (come il lavorante a giornata) l’altro paga il salario, ecc.”. Dunque, l’uguaglianza giuridica non ha implicazioni generali che rilevano su altre forme di uguaglianza, le quali non sono né necessarie né auspicabili, secondo Kant. Ancora un’idea, questa, che origina in Kant ma si svilupperà compiutamente nel liberalismo contemporaneo di Hayek. “L’uguaglianza delle norme generali della legge (…) - scrive Hayek in La Società Libera - è l’unico tipo di uguaglianza che contribuisca alla libertà e l’unica uguaglianza che sia con essa compatibile. La libertà - continua l’economista austriaco - non solo non ha nulla a che vedere con nessun altro tipo di uguaglianza ma, sotto molti aspetti, provoca ineluttabilmente la disuguaglianza. Ciò è effetto necessario della libertà individuale e parte della sua giustificazione (…). Se la difesa della libertà implica che tutti siano trattati allo stesso modo, non è perché postuli l’uguaglianza di fatto fra gli uomini, né perché tenti di crearla. Siffatta difesa non solo riconosce che gl’individui sono molto diversi, ma è in gran parte basata su tale presupposto: insiste sul fatto che le differenze individuali non forniscono alcun motivo di diversità di trattamento e, anzi, rifiuta quelle diversità di trattamento che di fatto si renderebbero necessarie per garantire un’uguale posizione degli individui nella vita sociale.”
Tali disuguaglianze derivano, dunque, dalle naturali differenze che esistono tra gli uomini, in particolare per quanto riguarda i talenti; differenze che sarebbe ingiusto negare o combattere, afferma Kant. La cura e la valorizzazione dei propri talenti e la possibilità di poter competere per farli valere nei confronti, anzi, degli altri dev’essere considerata come una forma legittima di libertà da garantire e promuovere. Ogni membro del corpo comune “deve poter raggiungere dal punto di vista del ceto ogni grado (…) al quale il suo talento, la sua operosità e la sua fortuna lo possano condurre; e gli altri sudditi non possono essergli d’intralcio con una prerogativa ereditaria (come privilegiati ad un certo ceto)”.
Qui la posizione di Kant rispetto all’eguaglianza giuridica si fa interessante. Da una parte, infatti, egli riafferma l’uguaglianza davanti alla legge sottolineando, al contempo, come questa non implichi un’uguaglianza di talenti, operosità e fortuna e, quindi, neanche un’uguaglianza di tutti i frutti che questi talenti possono generare e distribuire in maniera anche molto diseguale tra i cittadini. Ma dall’altra Kant condanna la disuguaglianza negli esiti quando questa derivi da una competizione viziata, come nel caso, per esempio, dei privilegi ereditari. Se le differenze iniziali, le prerogative di nascita stabilite e protette da norme giuridiche, dovessero impedire a qualche membro della società la coltivazione dei propri talenti e il godimento dei loro frutti, allora tali norme e tali differenze dovrebbero essere considerate ingiuste e andrebbero prontamente rimosse. La ragione di questa posizione sta nel fatto per cui, secondo Kant, “La nascita non è un atto di colui che nasce” e perciò dalla nascita “non può derivare alcuna diseguaglianza dello stato giuridico e alcuna sottomissione a leggi coattive, se non a quelle che egli, come suddito dell’unico supremo potere legislativo, ha in comune con ogni altro; e nessuno può dare in successione la prerogativa di ceto che egli possiede nel corpo comune ai suoi discendenti, quasi fosse qualificato per nascita al ceto dei signori, né può impedire a tale suddito, con la costrizione, di riuscire con il proprio merito ai più alti gradi della gerarchia sociale. Può ereditare tutto il resto, che è cosa e che può essere, in quanto proprietà, acquistato e anche da lui alienato, e che così può produrre in una serie di discendenti una considerevole diseguaglianza di condizioni tra i membri del corpo comune; solo non può impedire che questi, quando il loro talento, la loro operosità e la loro fortuna glielo rendano possibile, abbiano la possibilità di sollevarsi alle medesime condizioni”.
Da un punto di vista interpretativo questo aspetto della posizione di Kant risulta piuttosto problematico. Egli, infatti, si fa paladino di una visione quasi-procedurale della giustizia, una visione secondo la quale è compito del potere politico garantire il buon funzionamento delle procedure attraverso le quali le libertà sono tutelate ed esercitate. Se poi l’esercizio di tali libertà dovesse generare situazioni di grande disuguaglianza, fintantoché le procedure e le norme siano state rispettate, tali disuguaglianze dovranno essere considerate giuste. Chi non dovesse riuscire ad emergere dalla competizione dei talenti – conclude Kant - dovrà essere “cosciente che sta solo a lui (alla sua capacità o al suo autentico volere) o a circostanze di cui non può dar la colpa a nessuno, e non alla volontà irresistibile di altri, di non essersi elevato al medesimo grado di altri, che come suoi consudditi non hanno alcun privilegio su di lui riguardo al diritto”. È una posizione molto vicina a quella della giustizia “storica e non-modellata” che troviamo nel libertarismo contemporaneo di Robert Nozick, per esempio, il quale, per altri versi, non può essere considerato più lontano dall’impostazione tipica del pensiero kantiano.
Questa contraddizione può essere mitigata anche se non del tutto risolta considerando il contesto storico-politico nel quale Kant opera e scrive. Lo stato prussiano dei suoi tempi aveva infatti una struttura semifeudale caratterizzata da una netta divisione in classi. A questo stato di cose si indirizza la critica del filosofo, ai privilegi di nascita giuridicamente protetti. Il suo elogio del merito e della libertà di competizione su base di parità assume i tratti di una invocazione all’emancipazione e al riscatto delle classi subalterne. Ciò non toglie il fatto che Kant non riesce a riconoscere che i talenti e le doti naturali che differenziano gli individui alla nascita sono tanto immeritati quanto quegli stessi privilegi di casta che lui critica. Sono come questi ultimi, fattori che sfuggono al controllo degli individui e alla loro responsabilità. Non può esserci, quindi, merito né demerito, né lode né biasimo là dove non si possa rinvenire una responsabilità personale. È un tema del quale molto si occuperà John Rawls e più recentemente Michael Sandel e sul quale anche in Italia si è aperto di recente un utile e necessario dibattito. Utile perché il concetto di merito, come scrive Amartya Sen “ha tanti meriti ma non quello della chiarezza”, e necessario perché l’acritica assunzione di una prospettiva meritocratica può trasformarsi molto facilmente in una legittimazione morale delle disuguaglianze tipica di una società castale. E se c’è qualcosa di cui il nostro paese ha bisogno questo non è certo la legittimazione morale di una società ancora più ingiusta.