I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 01/10/2023
La teoria della giustizia è per Immanuel Kant una dottrina del diritto (Rechtslehre), nel senso che il concetto di “giustizia” indica per il filosofo tedesco, innanzitutto l’esistenza di un corpus di norme capace di proteggere la libertà di ogni individuo assicurandone, contemporaneamente, la compatibilità con la libertà di ogni altro individuo. La mia libertà non può, in nessun modo, interferire con la tua e viceversa. Kant, oltre a questa idea “negativa” di libertà – la libertà dalla coercizione e dall’abuso esterni, definisce anche una seconda accezione “positiva” di libertà e cioè riferita all’azione di soggetti autonomi capaci di esercitare una volontà che si fa “legge a sé stessa”, capace, cioè, di autoimporsi dei vincoli i quali, se arrivassero dall’esterno, potrebbero essere considerati ingiusti.
La seconda natura della libertà
Questa seconda natura della libertà è oggetto dell’etica kantiana, mentre la prima costituisce il centro prevalente della sua teoria della giustizia e del diritto. Quest’ultimo viene infatti considerato come “l’insieme delle condizioni per le quali l’arbitrio di uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro in base ad una legge universale della libertà”. Ma cosa intende Kant con l’idea di legge universale? Il concetto è obiettivamente astratto e anche il filosofo ne è consapevole. Per questo in varie parti delle sue opere politiche, Sul Detto Comune (1793), La Pace Perpetua (1795) e La Metafisica dei Costumi (1797), in particolare, cerca di definirlo declinandolo attraverso alcuni principi costituzionali; principi, cioè, che dovrebbero essere alla base di ogni stato di diritto affinché questo possa essere considerato giusto. Si tratta dei principi di libertà civile, di uguaglianza giuridica e di libertà politica.
La prima forma di libertà viene definita in Sul Detto Comune attraverso questa formula: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (nel modo in cui questi si immagina il benessere di altri uomini), ma ognuno deve poter cercare la sua felicità per la via che gli appare buona, purché non leda l’altrui libertà di tendere ad un analogo fine (…). - Un governo che fosse fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come di un padre verso i suoi figli, vale a dire un governo paterno (imperium paternale), dove dunque i sudditi, come i figli minorenni, che non sanno decidere cosa sia loro veramente utile o dannoso, siano costretti a comportarsi in modo puramente passivo, così da dover aspettare soltanto dai giudizi del capo dello Stato come debbano essere felici, e quando questi pure lo conceda loro, solo dalla sua bontà: questo governo è il massimo dispotismo pensabile”.
La condanna di Kant dello stato benevolente e paternalista è assoluta
La violazione della libertà civile anche a fin di bene, con l’intento, per esempio, di promuovere il benessere dei cittadini è agli occhi del filosofo quanto di più ingiusto e contrario alla libertà civile che si possa immaginare. Ma con questa condanna ancora Kant non ha definito precisamente cosa si debba intendere con libertà civile. Lo scopriamo nella seconda parte del brano citato: “Ognuno deve poter cercare la sua felicità per la via che gli appare buona, purché non leda l’altrui libertà di tendere ad un analogo fine”. Le violazioni dell’altrui libertà possono concretizzarsi attraverso due vie differenti: la prima si ha quando qualcuno, con la forza, mi impedisce di fare qualcosa che non lede direttamente o indirettamente la libertà di nessun altro. Se con le mie azioni non metto a rischio la libertà di qualcun altro, è ingiusto che quelle mie azioni vengano in qualche modo limitate.
La seconda forma di violazione della libertà civile si ha in presenza di comportamenti fraudolenti. Una menzogna di per sé non configura necessariamente un comportamento ingiusto, ma se la menzogna è finalizzata alla privazione di un diritto legittimo, allora tale menzogna diventa un atto ingiusto. Una qualificazione viene posta a questi due principi. Kant accetta, infatti, la massima romana secondo cui “volenti non fit injuria”; l’espressione di un esplicito consenso elimina l’ingiustizia dell’azione. Se chi vede lesa la propria libertà ha acconsentito a che ciò accadesse, allora tale limitazione della libertà non può essere considerata ingiusta. Accettare, volontariamente, che la propria libertà venga limitata dall’azione di qualcun altro è, infatti, anch’essa una forma di libertà da tutelare. Per quanto riguarda le azioni che hanno conseguenza solo su noi stessi, in generale Kant, le esclude dalle azioni che possono essere definite giuste o ingiuste. Queste, infatti, riguardano solamente le relazioni tra due o più persone e le influenze che le rispettive scelte esercitano sui soggetti coinvolti. Con un’eccezione: anche se la mia condotta non esercita nessuna influenza diretta sulla libertà di qualcun altro, ma produce effetti indiretti, allora questa può essere sottoposta ad una valutazione di giustizia. Se mi faccio del male o dilapido il mio patrimonio al gioco, queste mie scelte, pur non avendo nessun effetto diretto su altri, può nondimeno esercitare un’influenza indiretta su chi mi vuole bene, sui miei familiari o sui miei creditori, per esempio.
Questa influenza negativa, benché indiretta, sui diritti di altri dovrebbe far giudicare la mia condotta come ingiusta. Di conseguenza qualcuno che, anche con la forza, impedisce ad un aspirante suicida di portare a termine il suo intendimento o inibisce la disponibilità patrimoniale ad un giocatore patologico, non dovrebbe essere né biasimato, né condannato.
Scendendo ancora di più nello specifico la libertà d’azione che Kant ritiene meritevole di protezione giuridica è anche libertà di mettere a frutto i propri talenti. Ogni organizzazione sociale che limiti la libertà di qualcuno di usare al meglio la propria “industriosità” e “buona fortuna”, dice Kant, è da ritenersi ingiusta. Ognuno dovrebbe poter competere per affermare se stesso attraverso i propri talenti e se tale competizione dovesse produrre diseguaglianze anche molto ampie, queste non potrebbero essere ritenute ingiuste perché sarebbero conseguenza di una competizione libera e corretta.
La libertà di espressione
Un discorso a parte viene infine dedicato alla libertà di espressione, anch’essa considerata una forma di libertà civile. Kant in Sul Detto Comune fa riferimento esplicito alla “libertà della penna”. Altre volte, in Che cos’è l’illuminismo? (1784), per esempio, fa riferimento all’“uso pubblico” della ragione. Come spiega bene Allen Rosen nel suo Kant’s Theory of Justice (Cornell University Press, 1993) l’uso “pubblico” della ragione è in contrapposizione con il suo “uso privato”. La ragione pubblica è quella che muove gli studiosi e gli intellettuali che intervengono nel dibattito pubblico. Il suo uso dev’essere garantito e protetto da ogni forma di limitazione e da ogni vincolo di sorta. L’uso privato, per contro, è quello che un individuo esercita “in un certo impiego o ufficio civile a lui affidato”, come un ecclesiastico o un funzionario pubblico, per esempio. In questa sua veste, non gli può essere consentito di esercitare una libertà di espressione illimitata. Egli non può, secondo Kant, criticare, per esempio, le istituzioni a cui appartiene.
Ma la stessa persona, una volta dismessi i panni istituzionali, deve essere lasciata libera, quindi, di esprimere le sue idee anche critiche proprio in virtù del diritto all’uso pubblico della sua ragione. “Sarebbe assai deleterio se un ufficiale al quale venga ordinato qualcosa dal suo superiore volesse disquisire apertamente sull’opportunità o l’utilità di questo ordine: egli deve obbedire. Ma non si può con diritto proibirgli di fare, come studioso, osservazioni sugli errori del servizio militare e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli vengono imposti; e anzi, un insolente lamentarsi riguardo a tali imposte quando debbano essere da lui pagate può essere punito come uno scandalo (che potrebbe istigare a ribellioni generali). Questi non agisce tuttavia contro il dovere di cittadino se, come studioso, esprime pubblicamente i suoi pensieri contro l’inopportunità o persino l’ingiustizia di tali imposizioni”.
Il fondamento del diritto alla libertà civile
Andando alla radice della questione il diritto alla libertà civile trova fondamento, afferma Kant, nella nostra comune appartenenza alla specie umana. Una comune appartenenza che definisce, come implicazione, anche la nostra uguaglianza ed il diritto ad un eguale accesso alle libertà. E infatti il secondo principio costituzionale che Kant discute nelle sue opere politiche è proprio quello di uguaglianza davanti al diritto. Ce ne occuperemo la prossima settimana in un nuovo Mind the Economy ancora dedicato all’evoluzione dell’idea di giustizia dagli antichi fino ai giorni nostri.