Mind the economy

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L’aiuto pubblico ai poveri: perché per Kant è un diritto e non un favore

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 22/10/2023

“Gran parte delle idee contemporanee sulla giustizia sono considerate, sia dai protagonisti che dai critici, di origine kantiana”. Così scrive la filosofa Onora O’Neill nel suo Bounds of Justice (Cambridge University Press, 2000). Quest’affermazione certamente non sopravvaluta l’impatto del pensiero kantiano sulla filosofia politica e sulle teorie della giustizia contemporanee; basti considerare quanto il filosofo tedesco abbia influenzato autori così differenti tra loro come Robert Nozick o John Rawls.

In aperta contrapposizione con l’approccio utilitarista che poneva come finalità del potere politico la massimizzazione della felicità dei cittadini, Kant costruisce la sua teoria della giustizia intorno alla tema fondamentale della libertà. Una società giusta, afferma, è una società che si dà delle regole capaci di promuovere la massima libertà per il singolo rendendola al tempo stesso compatibile con la libertà di tutti gli altri. Per questa ragione la sola forma di coercizione ammessa in questo schema di ragionamento è quella volta ad impedire a qualcuno di travalicare tale limite di compatibilità e di violare, nell’esercizio della propria libertà, la libertà di qualcun altro. Sono corollari di questa legge fondamentale i tre principi costituzionali di libertà civile, di libertà giuridica e di eguaglianza davanti alla legge. Come abbiamo già avuto modo di notare, il diritto all’uguaglianza davanti alla legge cittadino non implica in nessun modo un diritto all’uguaglianza rispetto ad altre dimensioni della vita, per esempio nelle proprietà, nel potere, nel riconoscimento.

È giusto, al contrario, che ogni cittadino possa fare buon uso dei suoi talenti, delle circostanze della vita, delle sue fortune, in modo che possano fruttare al meglio e se questo genererà grandi differenze tra cittadino e cittadino tali disuguaglianze sono da considerarsi più che legittime. Questa tolleranza kantiana verso forme anche estreme di disuguaglianza ha fatto si che alcuni commentatori interpretassero il suo pensiero come antesignano dello “Stato minimo”. Una visione politica nella quale l’unico ruolo legittimo per lo Stato è quello della definizione e della tutela dei diritti di proprietà e della garanzia del rispetto dei contratti. Uno Stato che in nessun modo deve interferire con la vita dei cittadini per ridurre attraverso politiche redistributive le naturali disuguaglianze che la diversità di talenti può generare. Più recentemente questa interpretazione di Kant come precursore delle posizioni libertarie è stata criticata e messa in discussione. Se è certamente corretto affermare che egli si pone in totale contrapposizione con gli utilitaristi che accusa apertamente di paternalismo - “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo” scrive nel saggio Sul Detto Comune - dall’altra è pur vero che ad una lettura attenta il ruolo che egli assegna allo Stato è tutt’altro che “minimo”.

Uno degli esempi emblematici a questo riguardo è il potere che Kant attribuisce ai governi di utilizzare la tassazione per andare incontro ai bisogni dei cittadini più poveri. Sembra emergere qui una contraddizione. Da una parte, infatti, viene negato il diritto all’uguaglianza nei possessi e si combatte il dispotismo paternalistico ma, allo stesso tempo, come in questo famoso passaggio della Dottrina del Diritto, viene riconosciuta allo Stato la possibilità, anzi il dovere, di tassare i ricchi per sostenere i poveri. “Al supremo detentore del comando – scrive Kant - spetta (…) il diritto di gravare il popolo con imposte per il suo (del popolo) mantenimento, in quanto ci sono le istituzioni per i poveri, le case per i trovatelli, e le istituzioni ecclesiastiche, altrimenti dette istituzioni caritatevoli o pie.

La volontà generale del popolo si è infatti unificata in una società che deve mantenersi costantemente; e si è sottoposta al potere statuale interno al fine di mantenere i membri di questa società che da soli non ne sono capaci”. A proposito di questa apparente contraddizione nella sua A Short History of Distributive Justice (Harvard University Press, 2005) Samuel Fleischacker definisce Kant “Una figura curiosa nella storia della giustizia distributiva. Egli, infatti – continua il filosofo americano - è sia l’autore della più rigorosa descrizione dei diritti di proprietà che si possa trovare nella letteratura filosofica del suo tempo, sia il primo grande pensatore a sostenere esplicitamente che la cura dei poveri dovrebbe essere una questione di Stato piuttosto che un obbligo privato. Sarebbe bello se avesse anche un’argomentazione chiara ed efficace su come queste due cose possono e dovrebbero andare insieme, ma [purtroppo] non lo ha fatto”. Come vedremo, infatti, la ricostruzione dell’argomentazione giustificazione kantiana al riguardo è complessa e articolata. Per il momento può essere sufficiente notare come in termini generali la possibilità dell’imposizione fiscale nasca dal fatto che gli “abbienti” devono la loro ricchezza al fatto di vivere in uno Stato che gli ha garantito “la protezione e la cura, necessaria per la loro vita”. È sulla base della loro scelta di sottomettersi e obbligarsi al “corpo comune” dello Stato, quindi, che questo “fonda ora il suo diritto a [farli] contribuire al mantenimento dei loro concittadini”.

Eppure, su questo punto la posizione di Kant appare in forte contraddizione con l’idea di libertà civile che egli stesso pone alla base dell’idea di Stato. Tale contraddizione diventa palese quanto Kant sottolinea il fatto che l’imposizione fiscale può “avvenire per mezzo di imposta sulla proprietà dei cittadini, o sui loro commerci, o attraverso fondi istituiti e i loro interessi (…) e non semplicemente per mezzo di contributi volontari (…), ma coattivamente, come imposte statuali”. Il filosofo della libertà che giustifica l’imposizione fiscale coattiva per finanziare misure pubbliche di sostegno verso i più poveri. Secondo alcuni come, per esempio, Ernest Weinrib (“Poverty and Property in Kant’s System of Rights”. Notre Dame Law Review 78, 2003) tale posizione non è affatto contradditoria, anzi, essa appare implicita nell’idea stessa di contratto originario. Questo è un ipotetico accordo attraverso il quale i membri di uno Stato assumono reciprocamente degli obblighi gli uni nei confronti degli altri in cambio della garanzia che i loro diritti saranno fatti rispettare.

Il contratto originario rappresenta nella costruzione kantiana una sorta di test per verificare quando le leggi e le politiche pubbliche debbano essere considerate giuste o ingiuste; un corrispettivo politico di ciò che l’imperativo categorico rappresenta in campo etico. Se una legge è tale che un intero popolo non l’accetterebbe in un contratto originale, allora quella legge è ingiusta. Se, d’altro canto, una legge è tale da poter essere approvata da un intero popolo, allora tale legge è da considerarsi giusta. In questo senso un assetto sociale nel quale siano presenti leggi che consentono ad alcuni membri di uno Stato di essere privati dei mezzi necessari alla sussistenza non supererebbe il test del contratto originario, perché almeno alcune persone negherebbero la loro approvazione. Da qui l’obbligo pubblico al sostegno dei cittadini più poveri. Ma la reale posizione di Kant sembra più forte di quella difesa da Ripstein.

Secondo Allen Rosen (Kant’s Theory of Justice. Cornell University Press, 1993) la strategia kantiana giustifica l’obbligo al sostegno dei poveri attraverso una reductio ad absurdum, un ragionamento per assurdo. In questo modo vengono esplicitate le conseguenze di ciò che accadrebbe nel caso in cui un agente razionale dovesse voler rendere universale la massima secondo cui non si dovrebbero mai aiutare gli altri. L’argomentazione procede per passi successivi: ogni agente razionale desidera che tutti i suoi bisogni presenti e futuri possano essere soddisfatti.

Nessuno, inoltre, può escludere con certezza che il soddisfacimento dei propri bisogni futuri possa dipendere dall’aiuto degli altri. Per questa ragione ogni agente razionale e autointeressato preferirà un accordo sociale nel quale egli possa eventualmente godere dell’aiuto degli altri nel caso in cui ne dovesse avere bisogno. Ma se la massima di non aiutare mai gli altri fosse universalizzata diventerebbe una legge di natura e nessuno aiuterebbe mai nessun altro. Tale legge andrebbe contro gli interessi di ogni agente razionale. Quindi un tale agente che volesse rendere universale la massima di non aiutare gli altri cadrebbe in contraddizione con sé stesso. Il ragionamento per assurdo porta a concludere che tale massima non può essere universalizzata e che va universalizzata, cioè considerata giusta e razionale, la sua negazione: aiutare chi è nel bisogno rappresenta, dunque, un dovere morale. Se tale massima è giusta per il singolo cittadino lo dev’essere anche per il corpo dello Stato perché se nessuno può razionalmente accettare come legge morale il non aiutare mai gli altri, allora nemmeno un intero popolo può razionalmente volere come legge politica che lo Stato si disinteressi di coloro che sono in difficoltà permettendo che muoiano di stenti. Sia a livello individuale che politico rifiutare l’aiuto a chi è in difficoltà non sarebbe tanto una espressione della libertà dalla coercizione, afferma Rosen, quanto piuttosto

“Una contraddizione del fine razionale di ogni individuo di assicurare le condizioni necessarie al soddisfacimento dei suoi bisogni presenti e futuri”. Un’ultima suggestione ci arriva dall’analisi di questo conflitto tra libertà e solidarietà nella teoria kantiana e che può farci capire meglio il senso della posizione del filosofo al riguardo. È possibile interpretare il dovere di solidarietà con i poveri come una questione di giustizia e non come una violazione della libertà anche alla luce della critica kantiana al concetto di carità. Nelle sue Lezioni di Etica il filosofo fa notare come l’atto di fare l’elemosina se da una parte “lusinga l’orgoglio del donatore”, dall’altra “degrada coloro che la ricevono”. Per questa ragione “Sarebbe meglio vedere se il povero non possa essere aiutato in qualche altro modo che non comporti la sua degradazione”. Questa ulteriore considerazione rafforza ancor di più la legittimità dell’intervento pubblico a sostegno dei poveri. Perché è dovere dello Stato mediare attraverso la tassazione la relazione tra “abbienti” e poveri per fare in modo che l’aiuto pubblico verso gli ultimi si configuri come un diritto e non come un umiliante favore.

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