Mind the economy

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L’utilitarismo alle prese coi diritti delle minoranze

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 13/08/2023

Per gli utilitaristi classici, Beccaria, Bentham, Mill, Sidgwick, le implicazioni politiche della loro visione morale è immediata: se a livello individuale sono da ritenersi buone quelle azioni che producono l’aumento del benessere e la riduzione delle sofferenze, variamente intese, da un punto di vista politico devono essere considerate buone quelle azioni, quelle misure, quelle leggi che portano ad un aumento della somma del benessere degli individui o ne riducono la sofferenza complessiva. Dove per benessere sociale si intende nient’altro che la somma delle utilità dei cittadini. In sintesi, l’utilitarismo è, quindi, composto da due elementi: il primo è una descrizione del benessere individuale che può essere misurato attraverso il concetto di utilità; il secondo elemento è dato dall’indicazione di massimizzare la somma di queste utilità assegnando al benessere di ciascun cittadino un uguale peso. Quella che oggi si chiamerebbe la funzione del benessere sociale altro non è, per gli utilitaristi classici, che la sommatoria di tutte le utilità individuali.

Il concetto molto ampio di “utilità”

Abbiamo visto nelle settimane scorse che il contenuto del concetto di utilità può essere molto ampio. Possiamo considerare l’utilità nella sua forma edonica, fatta di sensazioni di piacere, oppure in una forma più allargata e non solo edonica, capace di considerare anche esperienze piacevoli e sentimenti piacevoli slegate dalle semplici sensazioni, oppure, ancora, possiamo riferirci all’utilità, come ciò che si ottiene quando vengono soddisfatti i desideri, le nostre preferenze. Comunque la si definisca in termini di contenuto, l’utilità è per sua natura soggetta alla legge dell’“incremento marginale decrescente”. Ciò vuol dire che la capacità di un bene o di una esperienza di produrre utilità si riduce al crescere della quantità consumata o sperimentata. Il primo bicchier d’acqua in una giornata assolata produce un grande benessere. Il secondo, visto che la sete a quel punto si sarà parzialmente ridotta, produrrà meno benessere rispetto al primo e così via con tutti i bicchier d’acqua successivi.

Il fatto che l’utilità sia soggetta a incrementi marginali decrescenti ha implicazioni interessanti rispetto alla natura delle politiche che possiamo utilizzare per far aumentare la somma del benessere dei cittadini. In questo senso, per esempio, la redistribuzione del reddito attraverso l’imposizione fiscale è una politica giusta proprio perché fa aumentare il benessere collettivo. Ma in che modo togliere ai redditi elevati per dare a chi ha redditi più bassi può far aumentare la somma delle utilità individuali? Se si considera la legge dell’utilità marginale decrescente si dovrà riconoscere che cento euro sottratti a chi ha un reddito già molto alto produrranno una riduzione della sua utilità che è minore rispetto all’incremento di utilità che il trasferimento di quegli stessi cento euro produrrà nei confronti dei cittadini con un reddito più basso. L’effetto netto di questa sottrazione e di questa addizione, meno cento più cento, in termini di utilità non sarà nullo, ma positivo e quindi l’utilità collettiva subirà un aumento. Tali politiche redistributive, dunque, secondo il metro di misura dell’utilitarismo devono essere ritenute politiche giuste.

Un aspetto distintivo dell’utilitarismo

Questo semplice esempio mette in luce un aspetto distintivo dell’utilitarismo e cioè il fatto che è perfettamente possibile che interessi legittimi – come il desiderio di non vedersi sottratto il frutto del proprio lavoro, per esempio - vengano sacrificati se questo sacrificio produce un incremento dell’utilità complessiva. Le persone sono tutte uguali e in nessun caso dobbiamo assegnare maggior peso all’utilità di una categoria piuttosto che a quella di un’altra.

Questa posizione sembra moralmente attraente, eppure, ad un’analisi più approfondita può evidenziare qualche crepa. Immaginate di dover decidere i dettagli della politica redistributiva di cui abbiamo appena parlato. Stiamo prelevando risorse dai cittadini che hanno un reddito elevato per redistribuirlo sotto forma di servizi a cittadini che hanno un reddito più basso. Immaginate di voler finanziare con quelle risorse l’educazione pubblica.

Il metro della massima utilità

Le risorse sono comunque limitate e dovete decidere come investirle al meglio. Il metro è sempre quello della massima utilità. A parità di reddito familiare, investireste in una classe di ragazzi e ragazzi prevalentemente italiani figli di genitori italiani che frequentano la scuola in una città ricca in un quartiere ricco o, in una classe multietnica che frequenta la scuola in un quartiere povero di una città povera? Quello stesso principio che indica come moralmente corretto redistribuire il reddito dai più ricchi ai più poveri potrebbe suggerirci di finanziare con quei soldi la scuola ricca perché la probabilità che quegli studenti diventino medici, ingegneri, avvocati etc., così ci dicono i dati, è maggiore di quella che lo diventino i figli degli immigrati che studiano nella scuola multietnica.

Un secondo problema dell’utilitarismo

L’utilità complessiva per la società verrebbe massimizzata, quindi, investendo sulla prima scuola e non sulla seconda anche se ci pare che proprio avrebbe maggiore bisogno di quell’investimento. Emerge così anche un secondo problema dell’utilitarismo, e cioè che tutte le relazioni umane devono essere considerate uguali. Il fatto di essere svantaggiato, per ragioni di storia familiare, salute fisica, appartenenza ad una minoranza linguistica o etnica, non dà al mio benessere, come oggetto di interesse pubblico, nessun privilegio speciale o nessuna priorità rispetto al benessere di qualsiasi altra persona. Questo a prima vista può anche essere una declinazione di un corretto principio di uguaglianza è imparzialità.

Ma è proprio così? Proviamo a considerare un altro esempio: avete chiesto dieci euro in prestito ad un amico. È giusto restituirglieli oppure no? “Certo”, ci viene spontaneo rispondere, anche se non c’è nessun obbligo legale; “dipende”, direbbe, invece, un utilitarista. Per esempio, se devolvessi quei soldi in beneficienza invece di restituirli al tuo amico, o li devolvessi a vantaggio della ricerca scientifica, certamente l’incremento complessivo di utilità sarebbe maggiore rispetto alla riduzione che sperimenterebbe il tuo amico. È questa una buona ragione per non rispettare la promessa? In termini utilitaristici potrebbe esserlo; la nostra intuizione morale ci dice però che c’è qualcosa che non va in questo ragionamento.

Il rapporto con le minoranze

Un’altra delle difficoltà dell’utilitarismo, forse la principale, riguarda, infine, il rapporto con le minoranze. Consideriamo una società prevalentemente bianca dove sono in vigore leggi palesemente discriminatorie nei confronti delle minoranze etniche. Possiamo dire che tali leggi siano moralmente e politicamente ingiuste? In un’ottica utilitarista non necessariamente. La maggioranza bianca starebbe meglio se, per esempio, gran parte delle risorse a disposizione venissero investite per finanziare una sanità di qualità ma solo per i bianchi e lasciare, così, alla minoranza non-bianca solo le briciole. Se l’incremento della somma delle utilità dei molti bianchi è maggiore di quello che sperimenterebbero i pochi non-bianchi, allora la politica discriminatoria è moralmente legittima.

Analogamente se la sola vista di due ragazzi omosessuali che passeggiano presi per mano in una strada affollata offendesse profondamente la maggioranza eterosessuale degli astanti? Anche in quel caso vietare simili gesti porterebbe un aumento dell’utilità complessiva e quindi dovrebbe essere ritenuto auspicabile. Il nostro senso morale innato ci fa percepire come ingiuste queste situazioni, come illegittime quelle motivazioni anche se sono le motivazioni della maggioranza, anzi, ancor più ingiuste proprio perché sono l’espressione di una maggioranza che opprime una minoranza.

Emerge qui un dato interessante rispetto all’evoluzione storica e al ruolo sociale e politico dell’approccio utilitarista che sembra essere diventato, per usare l’espressione di Bernard Williams, “sorprendentemente conformista”. Sempre a proposito ha fatto notare il filosofo Stuart Hampshire, come l’utilitarismo classico avesse quale finalità principale quella di “migliorare il mondo (…) e in gran parte per molti anni raggiunse questo obiettivo (…) La filosofia utilitaristica, prima della Prima guerra mondiale e per molti anni dopo di essa (…) era ancora una dottrina audace, innovativa, persino sovversiva nella sua efficace critica sociale. Credo che abbia perso questo ruolo e che ora rappresenti più che altro un ostacolo. (Citato in Goodin, R., 1995. Utilitarianism as a Public Philosophy. Cambridge University Press).
no slittamento sociale

L’utilitarismo ha sempre avuto un “problema” nei confronti delle minoranze, lo abbiamo visto, ma quando si affermò, nell’Inghilterra del XIX secolo, la minoranza era costituita da una piccola élite privilegiata che aveva organizzato la società politica e il sistema economico per trarne il massimo beneficio a spese della maggioranza rurale e della classe operaia. Le riforme progressiste sostenute dall’impianto filosofico dell’utilitarismo erano allora tutte rivolte all’allargamento della sfera dei diritti della maggioranza oppressa; allargamento legittimato dalla regola della massimizzazione dell’utilità per il maggior numero. A partire dalla metà del XX secolo, invece, le battaglie progressiste hanno assunto una connotazione differente: si sono incentrate, infatti, sui diritti delle minoranze discriminate: le persone con disabilità, gli afroamericani, i gay, le popolazioni indigene ed hanno operato per far accettare alla maggioranza dei cittadini politiche che non promuovevano l’interesse della maggioranza.

Uno slittamento sociale che ha messo in difficoltà, senza tuttavia eliminarla definitivamente, una prospettiva filosofica che ha avuto storicamente un’importanza fondamentale nell'evoluzione dell'idea di giustizia, scegliendo di porre il benessere delle persone al centro della riflessione morale e ponendo la promozione di tale benessere quale obiettivo prioritario delle istituzioni politiche.

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