Mind the economy

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Quando dall’egoismo (ben temperato) nasce la giustizia

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 11/06/2023

«A prima vista sembra che la natura si sia mostrata più crudele con l’uomo che con tutti gli animali che popolano questo pianeta - scrive David Hume nel suo Trattato sulla natura umana - in quanto lo ha sovraccaricato di innumerevoli bisogni e necessità, mentre gli fornisce solo dei mezzi esigui per soddisfare queste necessità».

Se confrontiamo il leone dai grandi appetiti e dalle grandi abilità venatorie con la pecora incapace di cacciare ma dalle esigenze alimentari proporzionate ai suoi limiti, la specie umana appare del tutto incongrua con i suoi bisogni smisurati rapportati alle limitatissime capacità predatorie.

L’ambizione e la delusione

Eppure, noi esseri umani, forse proprio per l’incongruità delle nostre aspirazioni, a differenza dei leoni e delle pecore, abbiamo inventato la società civile perché da questa società civile siamo in grado di trarre gran parte del nostro sostentamento, di colmare, cioè, la distanza tra ciò che desideriamo e ciò che potremmo procurarci da soli. Grazie a questa “invenzione” possiamo, quindi, gestire una tale “innaturale congiunzione di debolezza e di bisogno”, come la definisce Hume stesso.

È la forza della cooperazione, la divisione del lavoro, è l’evoluzione culturale più di quella naturale che ci ha resi capaci di fare le cose insieme, di unire sistematicamente le nostre forze e, in questo modo, di superare i limiti individuali che la natura ci ha imposto.

«La società compensa tutte le nostre debolezze; e sebbene in questa situazione si moltiplichino continuamente i nostri bisogni, pur tuttavia le capacità aumentano in misura ancora maggiore, e ci lasciano, da tutti i punti di vista, più soddisfatti e felici di quanto sia mai possibile divenire in una condizione solitaria e selvaggia». Una società civile, la vita in comune, che trova il suo stesso fondamento nel fatto che “con l’aiuto reciproco siamo meno esposti al caso e alle disgrazie” scrive Hume nel Trattato. Ed è proprio questa la ragione, il “supplemento di forza, capacità e sicurezza” che giustifica la nascita della società e ne rende stabile l’esistenza. Una stabilità che, tuttavia, può continuamente essere messa a rischio - continua Hume - dalla crescita dimensionale dei gruppi umani.

Mentre per le prime società, infatti, la benevolenza reciproca tra i membri della propria famiglia – la “selezione di parentela” diremmo oggi noi in termini moderni - poteva essere sufficiente ad imbrigliare l’azione di vizi ed avarizia, al crescere del numero dei membri delle comunità, tale forza risulta via via insufficiente. A causa, dunque, della benevolenza limitata e del rischio che questa renda precaria la nostra condizione di vita, si assiste alla generazione “artificiale” della virtù della giustizia. Uno dei temi più interessanti, anche se non tra i più originali, del pensiero di Hume, a questo riguardo, si collega alla relazione esistente tra l’idea di giustizia e quella di proprietà privata.

Come nasce il concetto di proprietà

Ricordiamo la posizione secondo cui il nostro egoismo viene stimolato dalla sproporzione dei nostri bisogni rispetto alle nostre capacità di soddisfarli. Desideriamo, cioè, più di quanto non siamo in grado di procurarci da soli. Una delle conseguenze più rilevanti di questa sproporzione è la necessità di distinguere i nostri beni da quelli degli altri. Di separare ciò che è mio da ciò che è tuo. A questo fine è necessario introdurre il concetto di proprietà. In quest’ambito Hume distingue tre tipologie di beni: “la soddisfazione intima della nostra mente, i vantaggi esterni del nostro corpo e (…) quei beni che abbiamo acquisito con il nostro lavoro e la nostra buona sorte”.

Mentre i beni del primo tipo non ci possono essere sottratti, quelle del secondo tipo, invece, possono, ma questi non sarebbero, comunque, di nessuna utilità per chi dovesse entrarne in possesso. Solo il terzo tipo di beni, quelli che derivano dal frutto del nostro lavoro, possono esserci sottratti e goduti anche da terzi. Da questo deriva il fatto che proprio tali beni sono i più fragili ed esposti “alla violenza altrui quanto alla possibilità di passare da una persona a un’altra senza subire nessuna perdita o alterazione”. Allo stesso tempo tali beni sono limitati e insufficienti a soddisfare i bisogni e i desideri di tutti. Ne deriva che, mentre la maggiore disponibilità di questi stessi beni rappresenta uno dei vantaggi principali derivanti dalla vita associata, allo stesso tempo “l’instabilità del loro possesso, ne costituisce l’ostacolo principale”. Maggiore abbondanza, quindi, di beni il cui possesso, però, è incerto.

La soluzione a tale problema non può derivare dalle virtù “naturali”, perché proprio queste stanno alla base dell’instabilità della vita in comune. Il rimedio, afferma Hume, invece, viene dall’artificio. «Infatti quando gli uomini, in seguito alla loro prima educazione nella società, siano giunti a rendersi conto dei vantaggi infiniti che derivano dalla vita della società civile e abbiano inoltre acquisito una nuova tendenza alla compagnia e alla conversazione: e una volta che si siano accorti come il principale motivo di turbamento nella società sorga da quei beni che chiamiamo esterni e dal loro continuo e instabile passare da una persona all’altra, dovranno cercare un rimedio ponendo questi beni, per quanto è possibile, sullo stesso piano dei vantaggi fissi e costanti della mente e del corpo. Ciò non si può fare altrimenti che mediante una convenzione tra tutti i membri della società, e cioè quella di conferire stabilità al possesso di questi beni esterni e di lasciare che ognuno goda in pace di tutto ciò che riesca ad acquisire casualmente o con il suo lavoro».

La dimensione strategica della giustizia

L’idea di fondo è che attraverso un processo evolutivo che avanza, prima per tentativi ed errori e, successivamente, grazie alla socializzazione e all’educazione, si stabilisce in maniera convenzionale la regola del rispetto della proprietà altrui affinché possa sapere di poter godere dei frutti del proprio lavoro in tutta tranquillità. La nascita della proprietà e la regola che ne impone il rispetto derivano, per Hume, da «una consapevolezza generale per l’interesse comune, consapevolezza che tutti i membri della società esprimono l’un l’altro, e che li induce a regolare la loro condotta in base a certe regole. Osservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni, purché egli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di un analogo interesse a regolare la sua condotta. Quando ci si esprime reciprocamente questa consapevolezza dell’interesse comune, così che essa risulti nota a entrambi, allora essa produce una risoluzione e un comportamento adeguato».

Emerge qui la dimensione strategica della giustizia. Mentre l’effetto delle virtù naturali può essere rappresentato attraverso l’immagine della costruzione di un muro nel quale ogni azione si somma all’altra per produrre il bene comune, le virtù artificiali, come la giustizia, non si sommano, ma si moltiplicano. Se anche uno solo dei termini diventa zero, tutto il prodotto, allora, si azzererà. Hume utilizza l’immagine dei mattoni che costituiscono una volta, la quale si regge, non tanto sulla base del contributo indipendente dei singoli, quanto grazie alle forze interdipendenti e congiunte esercitate contemporaneamente da ognuno dei mattoni che la compongono. Se anche uno solo di questi elementi dovesse venir meno, allora tutta la volta crollerebbe. Analogamente la giustizia ha natura strategica e convenzionale: io rispetto la tua proprietà perché mi aspetto che tutti gli altri membri della comunità facciano lo stesso e, a loro volta, ciascuno degli altri rispetterà le regole di giustizia proprio perché si aspettano che tutti gli altri facciano lo stesso. Ogni pietra sostiene le altre e, contemporaneamente, è sostenuta dalle sue vicine, senza bisogno di nessun collante, cemento o aggiunta di sorta. E, proprio come una volta gotica, tale virtù della giustizia si auto-sostiene perché è nell’interesse di tutti rispettarla.

Adam Smith, allievo prediletto e amico carissimo di Hume, descriverà la giustizia in termini molto simili, come “il pilastro portante che sorregge l’intera costruzione”, in assenza del quale vedremmo “l’immenso edificio della società umana (…) sgretolarsi in atomi”.

Come «due uomini che sospingono una barca a forza di remi – continua Hume - lo fanno in virtù di un accordo o di una convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca, così la regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla. Questa esperienza, anzi, ci dà ulteriori assicurazioni che la consapevolezza del reciproco interesse è divenuta comune a tutti i nostri compagni e ci dà fiducia sulla futura regolarità della loro condotta: e solo su questa aspettativa si fondano la nostra moderazione e la nostra astensione dai beni altrui».

Su cosa si fonda il carattere virtuoso della giustizia?

Solo dopo che la convenzione relativa al possesso e al rispetto dei beni altrui è diventata un equilibrio del gioco della vita allora possono sorgere i concetti di giustizia e di ingiustizia, di proprietà, diritto e obbligo che altrimenti, in assenza della convenzione sulla stabilità del possesso non potrebbero essere comprese in quanto prive di qualunque senso. «La nostra proprietà – afferma Hume - non è null’altro che quell’insieme di beni il cui possesso costante è stabilito dalle leggi della società, cioè dalle leggi della giustizia (…) La proprietà di un uomo è un oggetto in relazione con lui; questa relazione non è naturale, ma morale e basata sulla giustizia: è del tutto assurdo, quindi, immaginare che si possa avere un’idea della proprietà senza comprendere appieno la natura della giustizia, e senza mostrare la sua origine nell’artificio e nell’invenzione degli uomini. L’origine della giustizia spiega quella della proprietà; è lo stesso artificio che dà vita a entrambe». Sarebbe, infatti, impossibile, in assenza di un accordo convenzionale, da cui nasce l’idea di giustizia, comprendere e giustificare l’esistenza di “un diritto o una proprietà stabili”.

Su cosa si fonda - questa è la domanda centrale dalla quale siamo partiti – il carattere virtuoso della giustizia? “Sull’interesse personale”, risponde infine Hume. Interesse che non possiamo indicare né come vizio né come virtù, visto che solo attraverso il ricorso ad esso siamo in grado di controllare e limitare gli effetti disgreganti dell’interesse personale stesso rispetto all’ordine sociale. «Che la passione dell’interesse personale sia considerata un vizio oppure una virtù è esattamente la stessa cosa; infatti, soltanto lei riesce a frenare sé stessa; così che se essa è virtuosa gli uomini divengono sociali grazie alla loro virtù, se è viziosa è il loro vizio ad avere lo stesso effetto».

Una conclusione cinica e realista

Per Hume, in conclusione, la giustizia deriva dalla scarsità dei beni a disposizione degli uomini, dai loro appetiti sproporzionati, dalla divisione del lavoro, dai benefici che possiamo trarre dalla vita in comune e infine, al fondo della questione, dalla nostra considerazione per il nostro interesse personale. Una conclusione sorprendente, questa, cinica e realista che inaugura uno stile di pensiero che troverà in Adam Smith, amico e allievo, il pieno compimento con la sua influente teorizzazione della società di mercato. Quello stesso Adam Smith che in una lettera al suo editore William Strahan scrive di Hume che «di lui ho pensato sempre, quando era vivo come dopo la sua morte, che s’approssimasse tanto all’idea di uomo perfettamente saggio e virtuoso, quanto forse l’imperfetta natura umana lo permetta». 

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