Mind the economy

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Giustizia e proprietà privata. Dai Padri della Chiesa alla sintesi francescana

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 09/04/2023

 «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi» (S. Ambrogio, citato nel Decretum Gratiani). Sono parole, queste, che vengono riprese da Paolo VI nella sua enciclica sociale Populorum Progressio pubblicata nel 1967. «È come dire – continua il Papa - che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento della utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi».

Abbiamo visto, la settimana scorsa, che Tommaso d'Aquino era arrivato ad una posizione simile rispetto al principio di destinazione universale dei beni. La dottrina di Tommaso portava a sintesi secoli di dibattiti e di pensiero teologico che partono dagli Atti degli Apostoli – «nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 4,32-37) – e vedono come protagonisti principali i Padri della Chiesa. Questi considerano, infatti, la proprietà privata come una necessità derivante da uno stato di peccato.

Le posizioni dei Padri della Chiesa sulla proprietà privata

Come, in generale, la condizione dell'uomo nel mondo deriva dal peccato originale, così anche la necessità della proprietà è una sua conseguenza. La proprietà, per questo, non ha né una origine naturale, né una origine divina. Le posizioni al riguardo, sono naturalmente varie, ma molti dei Padri, tra cui Giovanni Crisostomo, Lattanzio, Gregorio Nisseno e il già citato Ambrogio, considerano la proprietà come qualcosa contro natura. E ipotizzano che in assenza della caduta originaria si sarebbe sviluppato un sistema di convivenza ed economico alternativo, migliore, fondato sulla comunione dei beni invece che sulla proprietà.

La successiva elaborazione, ad opera di teologi come Isidoro di Siviglia, Simone di Bisignano, Alessandro d'Hales, introduce al riguardo dell'idea di proprietà, il concetto di jus gentium, in base al quale l'origine della proprietà non andrebbe ricercata nel diritto naturale, né tantomeno in quello divino, quanto piuttosto, nella ragione umana, che dalla natura deduce concetti utili alla convivenza pacifica e alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio. Tommaso si inserisce in questa tradizione qualificando anch'egli la proprietà come originata dallo jus gentium, distinguendone due aspetti cruciali: l'usus e la potestas. Le due accezioni devono essere tenute separate in quanto assoggettate a regole diverse. Per quanto riguarda l'usus (e il consumo), l'uomo deve considerare i beni – «non come propri, bensì comuni e darli via facilmente, quando altri ne hanno bisogno».

Per quanto riguarda invece la produzione e la gestione (potestas), l'uomo è autorizzato a considerare i beni come suoi per farli rendere e amministrarli, come del resto sarebbe accaduto anche nel paradiso terrestre. Questa autorizzazione diventa per l'Aquinate, un dovere e un obbligo, in quanto, data la situazione di “caduta” nella quale l'uomo si trova, senza la proprietà, la poca voglia di lavorare, il disordine e soprattutto la mancanza di pace, impedirebbero il raggiungimento dello sviluppo e della prosperità, fine stesso dell'economia.

San Tommaso: la proprietà completa il diritto naturale

La proprietà non è, dunque, in opposizione al diritto naturale ma lo completa grazie all'azione della ragione umana. Per Tommaso quindi, possedere beni non è contrario al volere di Dio, ma lo può diventare quando queste ricchezze vengono utilizzate per sfruttare gli altri. «Il ricco – infatti - non agisce in maniera illecita se, occupando un bene che prima era comune, ne fa partecipi gli altri: ma pecca se irragionevolmente impedisce ad altri l'uso di codesto bene».

Sempre nella tradizione scolastica anche Bonaventura, seguendo Tommaso considera la proprietà fondata sullo jus gentium, e ne sottolinea l'importanza come mezzo senza il quale sarebbero impossibili l'ordine e la pace.

Pelagio e la scuola francescana

La sistematizzazione del pensiero teologico-filosofico elaborato fino ad allora dai pensatori cristiani si deve ad Alvaro Pelagio. Anche dall'elaborazione di Pelagio la proprietà viene vista come un male necessario al perseguimento ordinato e pacifico dei fini dell'economia, ma con sempre in mente un “rimpianto” per la condizione di innocenza “pre-caduta”, nel quale tutti usavano e beneficiavano di tutto ma nessuno possedeva niente esclusivamente per sé.

Accanto alla tradizione tomista, nasce e si diffonde quella della scuola francescana, basata principalmente sul pensiero di Duns Scoto e Guglielmo da Ockham. La riflessione di quest'ultimo prende l'avvio con distinzione tra dominium e proprietas. Il primo concetto indica il diritto a rivendicare il possesso di un bene, ma non estende tale diritto fino alla possibilità di farne ciò che si vuole, vale a dire disporne in modo incondizionato.

Il secondo concetto, invece, conferisce al proprietario questa potestà. Scaturisce da questa distinzione un dibattito che diventerà famoso nella storia della dottrina cristiana tra lo stesso Ockham e papa Giovanni XXII, che dal canto suo, considerava la proprietà una categoria originaria, voluta da Dio e riferibile all'uomo sin dalla sua creazione. La ragione della disputa va ricercata nell'affermazione dell'ordine francescano di non possedere nessun tipo di bene, di non averne, per meglio dire, la proprietà. Per le cose in loro possesso essi rivendicavano soltanto un uso “di fatto” e non “di diritto”. Queste cose, infatti, appartenevano secondo i francescani o a chi gliele aveva donate o al Papa stesso.

Quest'ultimo, Giovanni XXII appunto, reagì a tale affermazione mettendo in chiaro che nessuno può legittimamente utilizzare un bene senza poter rivendicare su di esso un qualche diritto e questo è particolarmente vero quando il bene in questione si consuma con l'uso. Per queste ragioni i francescani dovettero ammettere il godimento di un qualche diritto di proprietà, almeno di un dominium comune, sui beni da loro utilizzati. Diritto, del resto, già presente prima della “caduta”, e quindi di origine divina e non positiva.

Ockham venne incaricato dall'ordine di rispondere al decreto Papa Quia vir reprobus, e per questo elaborò la sua famosa Opus nonaginta dierum. Analizzare in qualche dettaglio quest'opera ci porterebbe troppo lontani, piena com'è di sottigliezze legalistiche e distinguo terminologici; ciò che interessa rilevare, però, è la posizione che ne scaturisce. In particolare, la distinzione tra dominium e dominium proprium. Nel secondo caso il diritto alla proprietà possiede l'attributo della esclusività. Vale a dire che l'esercitare il dominium proprium da parte di un soggetto, individuale o collettivo, su un particolare bene, implica l'esclusione di tutti gli altri soggetti dal godimento dello stesso diritto. E questo diritto, secondo Ockham, non poteva essere presente nello “stato di innocenza”, prima del peccato originale.

Nello stato di innocenza, infatti, tutto era in comune e niente poteva essere di qualcuno non essendo, nello stesso tempo, di qualcun altro. La proprietà nel senso di dominium proprium, continua Ockham, viene stabilita solo dopo la caduta, per mitigare le conseguenze dell'avidità umana. Solo dopo la caduta, quindi, nasce la potestas dividendi et appropriandi, vale a dire, la possibilità di appropriarsi di una quota dei beni che prima del peccato originale erano comuni. Data la contemporanea insorgenza di sentimenti di avidità e invidia, in questa fase, la ragione elabora il principio di proprietà per prevenire sopraffazioni. Si ha qui la netta presa di posizione, in contrasto con i Padri della Chiesa, a favore non solo della necessità ma anche della bontà, della proprietà. Che diventa un bene in sé in quanto per suo mezzo si cerca di riportare la convivenza umana verso un modello di pace e armonia, quale esisteva prima della caduta.

Dal diritto naturale alla volontà di Dio

La scuola francescana, in particolare attraverso Duns Scoto, mette in evidenza i limiti della tassonomia tomista. Partendo dal presupposto secondo cui una cosa è detta buona, non perché questa è la sua “essenza” (che si rispecchierebbe nel diritto naturale), ma perché questa è la volontà di Dio, cioè perché così Dio l'ha creata. Di conseguenza, nel momento in cui il diritto naturale perde il suo legame costitutivo con l'ordinamento di origine divina, esso perde la sua necessarietà e rientra nell'ambito del contingente.

Anche per Grozio (Huig van Groot), come per Ockham, la proprietà avrà valore convenzionale. Frutto di un accordo tra gli uomini; la proprietà privata diventa conditio sine qua non di una convivenza pacifica e ordinata, ormai non più possibile in regime di comunione dei beni. Ma la figura di Grozio è specialmente importante perché chiude davvero un'epoca e ne apre una nuova. Come fa notare Oreste Bazzichi, egli infatti con la sua opera segna il passaggio «dal diritto naturale ‘teistico' (...) al giusnaturalismo che potremmo definire laico» (“Alle Origini dello Spirito del Capitalismo”, Dehoniane, 1991, p. 37). Un passaggio che avrà conseguenze rilevantissime per le vicende che successivamente si svilupperanno interno all'idea stessa di giustizia.

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