I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 16/04/2023
L'essere umano possiede, per natura, alcuni diritti morali fondamentali. Il dovere di rispettare questi diritti deriva da un corretto uso della ragione, cioè, dalla legge naturale, la cui principale finalità è la promozione di una pacifica e prospera vita in comune con gli altri.
Questa, davvero in sintesi, è la radice del pensiero del filosofo olandese Huig van Groot, noto come Grozio, uno dei principali fautori del diritto naturale e, per molti, il fondatore del moderno diritto internazionale.
Grozio spartiacque tra due epoche
Come abbiamo visto la settimana scorsa, la figura di Grozio è di particolare rilevanza anche perché con lui si chiude un'epoca e se ne apre una nuova. Si passa dal diritto “teistico”, fondato sull'ordine divino e papale, ad un diritto “laico”, il giusnaturalismo, appunto, fondato invece sulla legge di natura.
L'approccio di Tommaso d'Aquino dominò il pensiero politico occidentale fino all'inizio del XVII secolo, quando la tradizione del diritto naturale fu radicalmente innovata da Ugo Grozio che, se da una parte si inserì nel solco di quella stessa tradizione, dall'altra, la rivoluzionò dalle fondamenta.
La prospettiva laica
A partire dal suo lavoro, nel secolo XVII e XVIII, la prospettiva “laica” si affermerà e la ragione diventerà la radice ultima su cui ancorare la ogni riflessione giuridica e politica. Come giustamente sottolinea Andreas Harald Aure, «il nostro tempo ha in comune con la tradizione del diritto naturale del 1600 e 1700 molto più di quanto non si creda. Questa tradizione ci ha tramandato i principi fondamentali del governo moderno e delle istituzioni giuridiche, come l'uguaglianza davanti alla legge, la tolleranza, i diritti fondamentali e il governo costituzionale. Esserne consapevoli è essenziale per comprendere in profondità la prospettiva attuale sui principi stessi della cultura occidentale», (“Hugo Grotius. Individual Rights as the Core of Natural Law”, in Fløistad, G. (ed.), Philosophy of Justice. Springer, 2015, p. 77).
La posizione sull’esistenza di Dio
Il suo approccio laico al diritto naturale lo porta a sostenere, in totale discontinuità con la tradizione precedente, che l'esistenza di Dio non rappresenta un prerequisito per la natura dell'ordinamento giuridico, né per quanto riguarda il suo contenuto, né per la sua natura vincolante. In altri termini, l'obbligo a vivere secondo la legge naturale, nel rispetto dei diritti individuali, si può fondare esclusivamente sulla ragione umana.
Nel De iure belli ac pacis (“Il diritto della guerra e della pace”), la sua opera principale, Grozio definisce il celebre principio dell'etiamsi daremus secondo cui la legge naturale sarebbe valida «anche se ammettessimo – cosa che non può farsi senza empietà gravissima – che Dio non esistesse o che Egli non si occupasse dell'umanità».
Si capisce perché non ci volle molto a ché il libro finisse assieme a molti altri nell'Index Librorum Prohibitorum. Il pensiero di Grozio è particolarmente rilevante anche per un altro tema che riguarda da vicino le nostre esplorazioni intorno al concetto di giustizia e, cioè, quello relativo al cosiddetto «diritto di necessità».
Una nuova idea di diritto
Nel XVII secolo, l'idea che la terra fosse stata donata da Dio all'uomo era un concetto cardine della filosofia politica occidentale e costituiva il fondamento ultimo dell'idea di proprietà comune. Questo dono avvenne originariamente e nuovamente dopo il diluvio universale.
Naturalmente questa prospettiva poneva il problema del passaggio cruciale nel quale tale proprietà comune iniziò a trasformarsi in proprietà individuali, soprattutto con riferimento a chi, in quel momento, ancora non era nato e non poté, quindi, prendere parte alla divisione. Prendendo spunto da questa premessa e dalla sua natura più che problematica, Grozio elabora una posizione secondo cui «in un caso di assoluta necessità, quell'antico diritto di usare le cose, come se rimanessero ancora comuni, deve rivivere ed essere in piena forza» (De iure belli, 2.2.6.2).
Il “diritto di necessità”, dunque, sostiene Grozio, non può essere pensato come un'estensione del dovere di carità ma, piuttosto, come un limite alla natura stessa e all'estensione del diritto di proprietà. Un limite la cui azione potrà essere invocata in casi molto specifici, quando, in particolare, tutti gli altri mezzi di sostentamento o altre vie di intervento saranno stati esauriti o si riveleranno inattuabili e, in ogni caso, proprietari legittimi potranno sempre far valere un contrapposto diritto al risarcimento, se possibile.
La novità portata da Grozio su questo punto non è tanto di merito quanto di metodo. Già Tommaso d'Aquino, infatti, nella Summa aveva trattato del diritto di necessità, ancorandolo però, come tutta la sua filosofia, ad un fondamento teologico. Grozio laicizza tale fondamento legittimando il diritto esclusivamente sulla base della ragione umana.
C'è anche una seconda differenza: l'approccio tomistico è di natura teologica-filosofica e quindi offre poche indicazioni per la effettiva tutela dei diritti e di quello di necessità in particolare. Grozio, al contrario, è un giurista e per questo è più interessato alla concreta protezione del diritto e quindi alle condizioni della sua concreta applicabilità. Venendo al contenuto del diritto di necessità, questo prevede che si possa rivendicare la proprietà di tutto ciò di cui si dovesse avere bisogno per scongiurare in imminente pericolo di vita. Quando un individuo rischia di morire di fame, può raccogliere frutti da un albero non suo o bere da un pozzo che incontra, indipendentemente dalla proprietà di quel pozzo.
Quel cibo e quell'acqua gli “apparterranno” temporaneamente in virtù del grave bisogno che sperimenta. Se si rischia la morte si può ricorrere ad un medicinale che non ci appartiene, così come di una casa nella quale cercare riparo dalla tormenta, o di qualsiasi altra cosa di cui si potrebbe avere bisogno per l'immediata sopravvivenza.
La limitazione alla proprietà privata che deriva dal diritto di necessità è legittima, nel sistema di Tommaso, perché la proprietà stessa non può essere configurata come un diritto originario, ma strumentale, per così dire, in quanto consentito dalla legge divina quale condizione attraverso la quale gli individui possono soddisfare i loro bisogni e, contemporaneamente, soccorrere i poveri.
Però quando un bisogno diventa urgente e manifesto, allora il principio di destinazione universale dei beni, per usare una terminologia moderna, diventa preminente rispetto alle normali regole che ne governano l'uso privato. L'uso per necessità grave di ciò che non si possiede è così naturale per Tommaso che non si configura in questo caso neanche la fattispecie di un “furto giustificato”. Si tratta, infatti, di una violazione che diventa legittima all'interno del sistema stesso della proprietà.
È utile sottolineare come, al di là della fattispecie teorica, nella prospettiva di Tommaso, l'occorrenza del diritto di necessità appare comunque molto limitata. La licenza legittima che deriva dal bisogno disperato si trova, infatti, molto al di fuori dell'ordine normale della vita sociale. Tommaso stesso chiarisce che essere “affamati o nudi”, per esempio, non può sempre configurare quell'“urgente necessità” che legittima la deroga al rispetto della proprietà. Il bisogno deve essere “urgente e palese” e non dev'esserci nessun modo alternativo per soddisfarlo.
Si capisce, quindi, quanto l'occorrenza di tali casi sia, da una parte rara, e dall'altra difficilmente configurabile e istituzionalizzabile. Quanta fame devi avere per poterti considerare realmente affamato? Quanto freddo devi avere per poter essere considerato a rischio di vita? Chi lo deve misurare e chi deve sancirlo ufficialmente? “Dio lo sa”, sembra rispondere Tommaso, ma questa risposta, naturalmente, non può essere sufficiente in un'aula di tribunale.
Grozio e il confronto con Tommaso
Grozio, diversamente da Tommaso, aveva una formazione giuridica più che teologica, e per questo affronta il tema del diritto di necessità con un approccio più orientato alla sua applicazione concreta. In questo senso, per lui, la deroga alla proprietà privata non trova fondamento nella legge dell'amore, ma rappresenta un vero e proprio diritto, che origina da quegli stessi principi che fondano l'ordine della proprietà.
Questo, da una parte, rende ancora più cogente il caso, ma, al contempo ne limita ulteriormente il campo di applicabilità. Grozio è, infatti, estremamente cauto nel circoscrivere il campo di applicazione del diritto di necessità solo a quei casi nei quali «ogni sforzo [è] stato fatto per vedere se la necessità può essere evitata in altro modo, come ad esempio ricorrendo a un magistrato, o anche tentando con suppliche di ottenere l'uso della cosa dal proprietario».
Analogamente viene fatto notare che non è consentito avvalersi del diritto “se il proprietario stesso è in pari necessità” e che si dovrebbe, in ogni caso possibile, restituire ciò che si usa dopo che il periodo di necessità sia trascorso. Lungo questa linea Grozio, esclude l'esistenza, quindi, di un diritto dei poveri a non essere poveri.
E' però importante sottolineare che anche per Grozio il diritto di necessità non ricade nell'ambito della benevolenza. Se sei in seria difficoltà il tuo destino non può essere affidato alla buona volontà degli altri. Un tema questo che verrà sviluppato tempo dopo da Hume e soprattutto da Adam Smith che descriverà l'avvento del mercato proprio come una via di civilizzazione e di emancipazione dalla dipendenza dal più ricco e potente. «Non è – infatti – dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo – scriverà Smith – ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale». Un passo tanto citato, quanto frainteso. Avremo occasione di riparlarne.