Mind the economy

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La giustizia di Ulisse e la scintilla della modernità

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 05/02/2023

«Una differenza tra l’uomo e gli altri animali è il bisogno di distinguere tra giustizia e ingiustizia», scrive Luigi Zoja in Giustizia e Bellezza (Boringhieri, 2016). «Questo desiderio – sottolinea - ha una conseguenza che unifica le forme del conoscere: tutte le scienze dell’uomo contengono una prospettiva etica». Non possiamo evitare in nessun modo di guardare il mondo assumendo una prospettiva etica. «Il fatto che le situazioni in cui ci troviamo siano giuste o ingiuste – continua Zoja - prima o poi ci riguarda. Anche se non abbiamo rivolto una domanda sul bene e sul male alle circostanze in cui viviamo, spesso lo sguardo delle circostanze si rivolge verso di noi, interrogandoci sul bene e sul male. E noi non possiamo rispondere che siamo indifferenti».

Anche se pensiamo e ci raccontiamo di non essere interessati alle faccende del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, prima o poi il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, verranno loro ad interpellarci, a sfidarci, a mettere in discussione le nostre credenze più radicate così come la nostra superficiale indifferenza. Iniziamo a confrontarci con questo imprescindibile bisogno, con questo obbligo, millenni fa, innanzitutto attraverso il linguaggio del mito e con quello contiguo della poesia. E allora l’Iliade omerica, che abbiamo discusso qualche settimana fa e poi l’Odissea che abbiamo incontrato la settimana scorsa e continuiamo ad interrogare oggi.

Nell’Iliade l’idea di giustizia poetica ruota ancora intorno al tema della volontà divina e dell’onore che da essa discende; essa assume essenzialmente la forma del «rispetto del dovuto», del riconoscimento da attribuire all’eroe, del rispetto da riconoscere al capo, del bottino da distribuire tra i combattenti; questa, per esempio, la scaturigine della faida tra Agamennone e Achille, che «infiniti addusse lutti agli Achei». L’idea di «giustizia» nell’Iliade, quindi, non appare come l’applicazione meccanica di un principio quanto, piuttosto, come il dipanarsi di una procedura algoritmica; di una contrattazione che consente alle parti di raggiungere un accordo ritenuto soddisfacente per i contraenti.

E' per questo che possono esistere tanti esiti giusti quanti sono gli accordi possibili. Ed è per questa ragione che si può parlare non solo di giustizia al singolare, ma anche di «giustizie» al plurale. Una giustizia o diverse giustizie, però, sempre fondate e legittimate dal volere degli dèi (themis), dalle loro passioni e dai loro capricci. Le cose cambieranno, anche se non drasticamente con l’Odissea, dove l'arbitrarietà della volontà divina appare mitigata da un certo livello di imparzialità e dove la colpa e il merito acquistano una natura, per certi versi, più oggettiva e certa. Certo è che come nell'Iliade anche nell’Odissea ancora gli dèi partecipano attivamente alle vicende umane con alleanze, disfide, odi, rancori e amori. Perché alla fine sempre «Zeus è la causa: lui dà / la sorte agli uomini industri, come vuole a ciascuno».

L’Odissea non è solo e forse neanche principalmente una storia di avventure e viaggi, quanto piuttosto il racconto di un conflitto tra il protagonista e i nemici usurpatori del regno, dall'altra. In questo senso riecheggia la struttura della trama dell’Iliade con Ulisse e la sua famiglia contro i Proci, ora, e Achille contro Agamennone, allora. Il conflitto è differente, la soluzione sarà differente, ma la natura del conflitto sembra essere sempre la stessa. Nonostante qui si assista ad un mutamento importante. Mentre per gli eroi dell’Iliade la hybris, la tracotanza è ancora un tratto virtuoso non distinto anzi parte integrante dell'areté - l’eroe virtuoso è per natura tracotante e sfrontato – ora nell’Odissea la hybris definisce il comportamento dei Proci, gli usurpatori del regno di Ulisse ad Itaca. L’accaparramento di ciò che non è dovuto loro viene condannato in una visione germinale della giustizia retributiva che ritroveremo secoli più tardi in Platone ma soprattutto in Aristotele.

Mentre nell’Iliade, però, l'offerta riparatoria di Agamennone verso Achille sarebbe in grado di ripristinare la condizione di giustizia se non fosse per l’ingiusto rifiuto di Achille, nell’Odissea l’offerta di risarcimento che Eurimaco, uno dei pretendenti alla mano di Penelope e usurpatore del regno, propone ad Ulisse non può essere accettata proprio per una questione di giustizia. La hybris dei Proci va punita con severità. Ecco che essa non appare più come un tratto del carattere eroico, ma come un vizio, piuttosto, smodato e colpevole.

E non solo, come accade nell'Iliade, per una violazione della volontà divina, ma ora, e qui sta la novità, anche per una mancanza verso ciò che dagli dèi agli uomini discende; nel caso di Ulisse il suo essere re e sovrano di Itaca. Questa giustizia retributiva è a doppio senso. Per questo Ulisse sarà durissimo contro Antino che rivolge la sua «rampogna» contro il fedele servo di Ulisse, Eumeo che lo aveva riportato a corte: «Perché, famigerato porcaro, hai condotto quest’uomo alla città? Non ci sono di già vagabondi di troppo / fastidiosi pitocchi, flagelli di mense imbandite? / Ti sdegni perché qui c’è gente che sperpera i beni / del tuo signore, e tu, per giunta, ci chiami quest’altro?».

Per lo stesso appello alla giustizia egli risparmierà la vita a Medone, araldo dei Proci che a sua volta aveva salvato la vita di Telemaco facendolo scampare all'agguato che i Proci gli avevano teso.La dike omerica continua anche nell’Odissea come nell'Iliade a rappresentare «ciò che è dovuto» ma non più solo in base al volere degli dei; ora anche in base a ciò che è lecito aspettarsi sulla base della consuetudine. Il dikaios, dunque, l’uomo giusto, è colui che si comporta in modo appropriato, atteso. Non sulla base di un principio universale, o di un senso morale condiviso, ma piuttosto nel significato che i filosofi sociali contemporanei attribuiscono oggi all’espressione «aspettative empiriche»: ciò che in determinate circostanze è lecito attendersi dagli altri, sulla base di una valutazione di frequenza statistica e non morale. Davanti ad un segnale di «stop> è lecito aspettarsi che un automobilista arresti la sua marcia perché abbiamo sperimentato nel passato che questo è ciò che accade nella maggior parte delle occasioni.

Anche per questa ragione, come sottolinea Eric Havelock, «parlare della “giustizia” dell’Odissea è forse lecito se la parola è posta tra virgolette. Non esiste un concetto di giustizia nell’epica greca, assimilabile al nostro senso della parola. Ciò che possiamo osservare sono disquisizioni sulle azioni dei giusti e dei loro oppositori, e su come la “cosa giusta” operi in un dato caso. Il “pensiero” epico rispetto a questi temi è condotto attraverso il modo in cui viene raccontata la storia. L’agente con le sue azioni e parole prevale sull’idea, che solo dal nostro punto di vista si può dire risiedere implicitamente nel racconto, ma che richiederebbe una sintassi espressiva non ancora disponibile, poiché sarebbe estranea al genio di un discorso conservato oralmente nella bocca di uomini che nel primo ellenismo ricordavano ma non leggevano» (The Greek Concept of Justice. Harvard University Press, 1978).

L’assenza, quasi l’impossibilità di un principio universale di giustizia deriva, dunque, anche dalla natura di una società preletteraria, nella quale l’espressione di una regola generale risulta complicata dalla tendenza del discorso ad evitare concetti universali proprio a causa della necessità di una trasmissione orale. Ne risulta diluita, quando non del tutto inesistente, l’idea di responsabilità e colpa individuale. E quindi Agamennone scatena il conflitto con Achille a causa di uno «stolto errore» voluto dagli dèi. Così come non è responsabile Elena che piangeva «la colpa che Afrodite (…) spinse / a commettere».

Per questo, suggerisce Anna Jellamo ne Il cammino di dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo (Donzelli, 2005), «i personaggi omerici possono essere colpevoli, ma non responsabili (…) Giustizia è la volontà degli dei, e la volontà degli dèi è imperscrutabile». Eppure, nell’Odissea, una novità c’è. Se è vero come abbiamo affermato che l’opera non è solo e forse neanche principalmente una storia di avventure, è vero altresì che Omero è quel viaggiatore che può trovare una patria ovunque, un nuovo tipo umano, uno che può sopravvivere facendo affidamento sulla sua eccellenza, sulla sua areté, e non più solo sull’ordine dato (themis) o su ciò che è giusto attendersi (dike). Una scintilla di modernità in un mondo arcaico e ancora per molti versi a noi imperscrutabile.

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