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L'Iliade, l’onore degli eroi e la giustizia come negoziazione

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 29/01/2023

Nell'introduzione alla sua Breve storia dell'Etica il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre scrive che uno dei guai principali di chi occupa di filosofia morale è quello di trattare i concetti e le idee come se la storia del loro sviluppo fosse un aspetto secondario. Come se quelli morali fossero dei concetti speciali «senza tempo, immodificabili, caratterizzati da elementi fissi durante tutta la loro storia». Ma i concetti morali – continua MacIntyre – cambiano al modificarsi della vita sociale. «Non a causa dei cambiamenti della vita sociale – puntualizza – perché questo suggerirebbe che la vita sociale sia una cosa e quella morale un'altra e che ci sia solo una relazione causale esterna e contingente tra le due. E questo è ovviamente falso. I concetti morali sono incarnati e sono costitutivi di ogni forma di vita sociale». Ne deriva che un modo per distinguere una forma di vita sociale da un'altra è quello di distinguere i principi morali che caratterizzano l'una rispetto all'altra.

I concetti morali si esprimono solo nel proprio contesto

L'impossibilità di tradurre in italiano, o in ogni altra lingua differente dal greco antico, il significato pieno del termine δικαιοσύνη (dikaiosýne), per esempio, con un'unica parola che in italiano possiamo solo lontanamente approssimare a «giustizia» è proprio la conseguenza dell'incorporazione dei concetti morali in forme di vita sociali all'interno delle quali, solamente, le parole esprimono il loro significato compiuto. Bisognerebbe essere greci, contemporanei di Platone o di Aristotele, per poter comprendere in profondità il senso del termine. Questo naturalmente non vuol dire che quell'idea greca di giustizia non abbia niente da dire oggi a noi e ai nostri contemporanei. Ma lo può fare proprio grazie all'analisi storica che ci farà scoprire certamente delle continuità oltre alle necessarie differenze tra la dikaiosýne dei greci, la iustitia di Hobbes, la justice di Bentham e la giustizia di Norberto Bobbio.

La questione è ulteriormente complicata dal fatto che, spesso, comprendere il mondo, anche le sue forme sociali, equivale ad intervenire su di esso, cambiandolo. Mentre si studia la storia delle idee, dunque, quelle idee stesse modificano la realtà che le ha generate. Non è, dunque, un compito facile, ma è certamente un obiettivo ineludibile quello di andare a riscoprire le radici che hanno generato l'albero imponente della nostra comprensione dell'idea di giustizia. Abbiamo iniziato nelle settimane scorse rivolgendo lo sguardo a Platone ed Aristotele proviamo a continuare oggi facendo un ulteriore passo indietro e cercando di scavare a fondo intorno all'idea di giustizia che troviamo nella poesia omerica. Il tratto distintivo, qui, sembra essere il conflitto tra dike e hybris, tra il giusto limite e lo sconfinamento nell'eccesso.

 Il principio del «limite» in Omero

Un tema, quello del limite, che poi ritroveremo in Pitagora, con la sua teoria dell'armonia, come anche in Platone e Aristotele. Ma in Omero il limite e il suo superamento assumono perfino un significato fisico, il significato del confine, della parte assegnata e quindi del travalicamento, dell'invasione. Perfino gli dèi sono tenuti al rispetto di questo limite.

Ce lo racconta proprio Omero nel Libro XV dell'Iliade quando Poseidone minaccia Zeus, reo di aver violato i confini della sua giurisdizione sui mari. Analogamente Eschilo nelle Eumenidi racconta del conflitto tra Apollo e le Erinni scatenato anche questa volta da un'invasione di territorio e da un'appropriazione indebita. Questa idea del limite e dell'illiceità della sua violazione permea tutta la cultura greca anche se non è chiaro se il peccato di hybris sia maggiormente legato ad una violazione dei rapporti nella sfera religiosa, la mancanza di rispetto e l'arroganza nei confronti degli dèi, o come fatto sociale o, piuttosto, come intreccio delle due sfere, religiosa e sociale insieme.

 Ma torniamo ad Omero. È interessante notare come nel quadro dell'Iliade, il superamento arrogante del limite viene punito solo quando questo è rivolto agli dèi. È emblematica la vicenda di Agamennone e della sua irriverenza nei confronti di Crise, sacerdote di Apollo. È questa la vicenda che scatena la vendetta di Apollo che vede disprezzati i paramenti del suo sacerdote e che, per questo, la prende sul personale, mandando per punizione la peste nel campo degli Achei.

Quando Agamennone si scaglia con lo stesso disprezzo e tracotanza contro Achille, però, non osserveremo nessun intervento divino a sottolinearne la colpa. La violazione dell'onore di Achille da parte di Agamennone, infatti, è solo un illecito sociale, ma non una colpa. Achille se la dovrà sbrigare da solo per ristabilire il suo onore ferito. Sarà poi la madre Teti ad implorare Zeus «Dagli tu gloria, dunque, olimpio saggio Zeus / dà la vittoria ai Troiani, fin quando gli Achei / onorino il figlio mio, lo riempiano di gloria». E solo per via di questa richiesta della madre di Achille che l'intervento divino colpirà gli Achei determinandone la sconfitta.

Ma, paradossalmente, quella che Teti invoca non è una riparazione giusta dell'onore ferito del figlio, ma solo una vendetta che nel frattempo da riparazione giusta è diventata ingiusta rivincita. Agamennone, infatti, riconosce il torto compiuto contro Achille e manda ambasciate di pace per riparare all'offesa con doni e promesse di doni. La determinazione di Achille a non mutuare la sua ira e a non accettare la pace offerta da Agamennone trasformerà, a causa della sua inflessibilità, la sua giusta reazione in una ingiusta vendetta.

Questo è il messaggio morale di Omero che fa dire a Fenice, l'ambasciatore di Agamennone presso Achille assieme ad Aiace ed Odisseo: «Ma doma, Achille, il cuore magnanimo; non ti conviene / aver petto spietato; si piegano anche gli dei / dei quali certo maggiore è la forza e l'onore e il potere».

Accettano riparazione perfino gli dèi - dice Fenice al Pelìde - e tu continui a respingere le profferte di pace?

 Se la giustizia viene violata dall'arroganza dell'hybris altrettanto capita con il rifiuto delle preghiere, della temperanza, della moderazione. Tanto più che la pubblicità della richiesta di riparazione fatta ad Achille da Agamennone porterebbe anche al risarcimento del torto subito.

La giustizia poetica dell’Iliade

Nell'Iliade la giustizia poetica ruota ancora intorno al tema dell'onore ed assume essenzialmente la forma del «rispetto del dovuto», sia in termini materiali che immateriali. L'onore da attribuire all'eroe, il rispetto da riconoscere al capo, il bottino da distribuire tra i combattenti. Per questo, la «giustizia» dell'Iliade non ha tanto a che fare con un principio quanto, piuttosto, con una procedura. Si ottiene giustizia trovando un accordo in un processo di negoziazione tra le parti contendenti.

Diversi accordi possono soddisfare parti differenti ed è per questo che possiamo pensare ad una giustizia singolare (dike), ma anche ad una giustizia al plurale (dikai). Ma questa giustizia ancora fondata sul “dovuto”, essenzialmente sulla volontà degli dèi appare alla nostra sensibilità di moderni ancora troppo evanescente e precaria.

«Troppo vicini agli uomini, gli dèi dell'Iliade, troppo umani essi stessi per poter rappresentare una giustizia sottratta alle passioni, imparziale e certa», come scrive al riguardo Anna Jellamo. Le cose cambieranno, ma non troppo, nell'Odissea, dove ancora «La volontà divina è misura del bene e del male», ma, questa volta in termini probabilmente meno arbitrari. I comportamenti umani, le scelte dei singoli, la responsabilità individuale diventano, ora, infatti, oggetto della valutazione divina rendendo, in questo modo, la colpa e gli onori più oggettivi e certi. Un passo cruciale nello sviluppo storico del concetto di giustizia così come oggi lo intendiamo.

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