Mind the economy

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Altruisti si nasce o si diventa?

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 20/03/2022

Il video è in bassa risoluzione. Un’inquadratura fissa mostra una donna in un angolo della stanza seduta su una sedia. Accanto a lei un bimbo piccolissimo che sta in piedi in un equilibrio precario. Nel lato opposto della stanza un armadietto a due ante, chiuso. Dopo poco, dal lato destro dell’inquadratura entra un giovane alto, trasporta una pila di libri con entrambe le braccia. Arriva davanti all’armadietto e sbatte contro le ante. Sembra in difficoltà. Passano pochi secondi e il bimbo – scopriremo poi di soli 18 mesi d’età – si avvia barcollante ma spedito verso l’armadio. Durante tutto il tragitto non smette di fissare il ragazzo negli occhi. Si ferma davanti a lui, con entrambe le mani apre le due ante dell’armadietto, fa un passo indietro e guarda nuovamente dritto negli occhi il ragazzo: «Ora puoi mettere a posto i tuoi libri», sembra dire con lo sguardo il piccolo.

L’esperimento sulla disposizione all’«aiuto strumentale»

Il video riprende una sessione di un famoso esperimento condotto qualche anno fa da Michael Tomasello e Felix Warneken, entrambi psicologi del Dipartimento di psicologia comparata dello sviluppo al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Warneken è il ragazzo dei libri che appare nel video). Esistono numerosi studi che dimostrano come i bambini, anche molto piccoli, si preoccupino empaticamente per gli altri in difficoltà e altri che trovano che i bambini, già in età prescolare e persino i neonati, provano a rispondere ai bisogni emotivi degli altri, ad esempio confortando qualcuno che piange; lo studio di Tomasello e Warneken, pubblicato nel 2006 su “Science”, è il primo a mostrare sperimentalmente come anche bambini molto piccoli siano disposti a comportamenti di “aiuto strumentale”. Comportamenti che forniscono aiuto a persone che si trovano ad affrontare un problema e non sono in grado da soli di raggiungere il loro obiettivo.

Questo studio pionieristico è così importante perché, a dispetto del semplice gesto di aprire le ante dell’armadio, mette in evidenza la natura spontanea e non appresa della straordinaria socialità umana. Quello di aiuto è un comportamento estremamente interessante sia dal punto di vista cognitivo che da quello motivazionale. Per essere in grado di aiutare qualcuno, infatti, dobbiamo essere in grado di comprendere le sue intenzioni, le sue credenze, i suoi obiettivi e gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dei suoi fini. Il bambino del video, 18 mesi di età, apparentemente disinteressato alla scena che sta avvenendo davanti ai suoi occhi, in realtà compie operazioni cognitivamente estremamente sofisticate. Si mette nei panni del ragazzo, comprende che il suo obiettivo è quello di riporre i libri all’interno dell’armadio, capisce anche che avendo entrambe le mani occupate non riesce ad aprire le ante e che, senza questo passaggio, raggiungere il suo fine è impossibile; da ultimo il bimbo comprende cosa lui può fare per aiutare l’altro a finalizzare il suo piano: aprire le ante.

Oltre la dimensione cognitiva occorre motivazione ad aiutare

Ma neanche tutto questo è sufficiente a far scattare l’aiuto. Non basta solo la dimensione cognitiva, è necessaria la motivazione ad aiutare. Da questo punto di vista, aiutare qualcuno, un estraneo, senza la prospettiva di trarne alcun beneficio diretto, rappresenta un costo netto ed è, infatti, un comportamento estremamente raro nelle specie non umane.

Per esplorare anche questo ulteriore aspetto, Tomasello e Warneken, ripetono gli esperimenti fatti coi bambini anche con dei cuccioli di scimpanzé, convinti che, come loro stessi affermano: «Tale confronto può permetterci di distinguere aspetti dell’altruismo che erano già presenti nell’antenato comune degli scimpanzé e degli esseri umani da aspetti dell’altruismo che si sono evoluti solo nel lignaggio umano» (“Altruistic helping in human infants and young chimpanzees”. ​Science, 2006, 311, p. 1303).

Il confronto con il comportamento degli scimpanzé evidenzia che anche questi sono disponibili all’aiuto e, come nel caso dei bambini, anche loro lo fanno senza ricevere alcun beneficio né materiale (una ricompensa) né immateriale (una lode). Ma gli scimpanzé, diversamente dai bambini, non hanno fornito il loro aiuto in tutti i compiti loro proposti. Non sono stati in grado di aiutare in tutte quelle situazioni nelle quali l’ostacolo al raggiungimento del fine dello sperimentatore era rappresentato da ostacoli fisici o dall’utilizzo di strumenti sbagliati.

Possiamo concludere che sia i bambini che gli scimpanzé sono entrambi disposti ad aiutare, ma sembrano differire nelle loro capacità di interpretare il bisogno di aiuto dell’altro. Mentre la dimensione motivazionale sembra essere presente in entrambe le specie, noi umani eccelliamo nella dimensione cognitiva che ci mette nelle condizioni di leggere in maniera più dettagliata la situazione sociale e di comprendere più a fondo gli stati mentali degli altri, precondizione per poterli aiutare in maniera appropriata.

Altruismo, una tendenza innata

Questo e molti altri studi hanno portato Tomasello a formulare quella che lui chiama l’“Ipotesi Spelke prima, Dweck poi”. La prima parte dell’ipotesi – “Spelke”, dal nome della psicologia di Harvard Elizabeth Spelke – sostiene che già intorno al primo anno di vita i bambini si dimostrano collaborativi e disposti all’aiuto e che questa tendenza non è appresa, bensì spontanea, innata. La seconda parte dell’ipotesi – “Dweck”, dal Carol Dweck, psicologa di Stanford – riguarda il fatto che questa tendenza incondizionata all’aiuto, con lo sviluppo del bambino, inizia ad essere mediata da fattori appresi: la presenza o l’assenza di reciprocità da parte di chi riceve l’aiuto o la preoccupazione per il giudizio che si riceverà da parte degli altri membri del gruppo quando, per esempio, si aiuta chi non se lo meriterebbe o quando invece non si aiuta chi davvero ne avrebbe bisogno. È in questa fase che, con il processo di socializzazione, si iniziano ad interiorizzare le norme sociali e, più in generale, la cultura del gruppo di appartenenza.

Tre famiglie di comportamenti spontanei

Ci occuperemo qui della prima parte dell’ipotesi – Spelcke – e affronteremo la prossima settimana la seconda parte – la Dweck. È importante notare come Tomasello suddivida l’atteggiamento altruistico in tre famiglie di comportamenti: il prestare aiuto, il condividere informazioni e il condividere risorse. Tutt’è tre queste tipologie sono manifestazioni dello stesso orientamento prosociale ma ognuna di queste presenta specificità differenti che è utile tenere distinte. Le ragioni che spingono a credere che questi comportamenti siano del tutto spontanei e non appresi culturalmente sono essenzialmente cinque.

Cinque ragioni

La prima ha a che fare con l’osservazione dell’insorgenza precocissima di questi comportamenti. Già tra i quattordici e i diciotto mesi d’età i bambini manifestano, come abbiamo visto, il desiderio e le capacità per aiutare gli altri.

La seconda ragione, invece, è più sottile ed è relativa al fatto che questi comportamenti non sono sensibili all’incentivazione. Le ricompense e la lode da parte dei genitori, per esempio, sembrano non avere alcun effetto sulla frequenza di certe manifestazioni. La presenza, per esempio, della madre pronta a incoraggiare le scelte altruistiche dei figlioletti si è visto non avere nessun effetto rispetto a quando i bambini dovevano prendere le stesse scelte da soli, in assenza di un soggetto desideroso di ricompensare affettivamente i comportamenti di aiuto. Le ricompense, anzi, in questi casi, stando a nuovi e recenti studi, sembrano poter produrre una riduzione della spinta all’aiuto. Possono cioè rivelarsi perfino controproducenti (Warneken, F., Tomasello, M. “Extrinsic Rewards Undermine Altruistic Tendencies in 20-Month-Olds”. Developmental Psychology XLIV, 2008, pp. 1783-88).

La terza ragione per ritenere che i bambini non aiutino gli altri in vista di una ricompensa materiale o immateriale sta nel fatto che in molte occasioni, quando le loro capacità cognitive glielo consentono, anche gli scimpanzé cresciuti in cattività, sono disposti ad aiutare, anche in assenza di stimoli rinforzatori e, certamente, in assenza della mamma.  Tomasello sintetizza il punto in questo modo: «Se i nostri parenti primati - compresi quelli il cui contatto con gli esseri umani sia stato minimo - manifestano un comportamento di cooperazione simile al nostro, questa è la riprova che il comportamento cooperativo degli umani non è il prodotto di un ambiente culturale umano o para-umano” (“Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli”. Bollati Boringhieri, 2009).

La dimensione educativa

La quarta ragione ha a che fare con la dimensione educativa. I risultati di alcuni recenti studi antropologici sembrano dimostrare che confrontando il comportamento dei bambini cresciuti in culture nelle quali le figure genitoriali sono centrali nel processo educativo con quelli cresciuti, invece, in società dove l’adulto non interagisce con i bambini se non sporadicamente e l’educazione avviene tra pari, non si notano differenze rispetto alle tendenze all’aiuto manifestate dai piccoli.

La partecipazione empatica

La quinta ragione riguarda le risposte empatiche automatiche. Bambini molto piccoli, tra i diciotto e i ventiquattro mesi d’età, messi davanti ad una situazione nella quale un soggetto adulto subisce un’ingiustizia – un suo disegno viene strappato da un soggetto terzo – guardavano la vittima, che pure non lasciava trasparire nessuna emozione, con uno sguardo che gli autori dello studio definiscono senza dubbio “partecipe”.

Questa risposta empatica rendeva i bambini più disponibili all’aiuto, in una seconda fase dello studio. Conclude Tomasello: «Questo porta a pensare che le risposte empatiche o simpatetiche indotte spontaneamente nei bambini dalla situazione in cui si trovava la vittima abbiano influenzato la loro propensione all’aiuto. Ne deduciamo che è questa «partecipazione», e non le ricompense esterne, a motivare l’altruismo infantile». La propensione all’aiuto rappresenterebbe dunque, in questa fase dello sviluppo infantile, una tendenza automatica e del tutto spontanea, con buona pace di Hobbes e con grande soddisfazione di Rousseau.

Il successivo processo di socializzazione cui sono soggetti i bambini nella loro crescita, naturalmente, influenza profondamente i loro modelli comportamentali ed anche la disponibilità all’aiuto. Questo processo, quello che ricade sotto l’“ipotesi Dweck”, è di fondamentale importanza e ce ne occuperemo diffusamente nei prossimi appuntamenti con Mind the Economy. È questo il momento cruciale nel quale lo sviluppo dei nostri figli passa da essere una questione puramente familiare ad una faccenda sociale, una faccenda che non può non chiamare in causa una profonda e ineludibile responsabilità collettiva.

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