Mind the economy

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L’homo economicus è un darwinista ingenuo e la sua ideologia è contagiosa

I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore

di Vittorio Pelligra

pubblicato su Il Sole 24 ore del 13/03/2022

I risultati più recenti dell'economia comportamentale, ma anche dell'antropologia culturale e delle neuroscienze sociali concordano nel descrivere il comportamento umano come essenzialmente “vacillante”. Le nostre motivazioni non sembrano tanto essere incondizionali, cioè puramente autointeressate o puramente altruistiche. Sembra piuttosto che siamo mossi da motivazioni condizionali, che ci fanno propendere ora verso un atteggiamento egoistico ora, invece, per uno più prosociale, in base a fattori esterni che vanno dal comportamento di coloro con i quali stiamo interagendo o che formano per noi il gruppo di riferimento, al tipo di schema relazionale nella quale siano inseriti, fino alla cultura dominante che segnala quali sono le norme sociali più largamente approvate.

Eppure, nonostante questa comprensione piuttosto sofisticata della struttura motivazionale il principio comportamentale del self-interest, dell'auto-interesse, rimane, almeno in economia, il principio guida. Per dirla Francis Ysidro Edgeworth: “Il principio primo dell'economia è quello secondo cui gli agenti sono mossi esclusivamente dal loro interesse personale” (Mathematical Psychics, 1881, p.16). Abbiamo visto nei due precedenti appuntamenti con Mind the Economy, alcune delle ragioni che spiegano questa pervicace ostinazione nell'assumere il concetto di self-interest come pietra angolare dei modelli teorici e del modo di ragionare di gran parte degli economisti. Oggi termineremo questa rassegna analizzando gli ultimi tre elementi presenti nella nostra personale lista.

Il primo ha a che fare con l'esistenza di una stretta correlazione tra le sanzioni interne e le sanzioni esterne. Le sanzioni esterne sono quelle che puniscono le violazioni a norme formali – leggi e regolamenti – che generalmente hanno come finalità ultima quella di favorire il coordinamento, la cooperazione e la protezione dei nostri legittimi interessi. Possiamo affermare che, in generale, le nostre norme legali sono strutturate per premiare le azioni che aiutano gli altri e per punire le azioni che, al contrario, li danneggiano. Il divieto dell'omicidio, del furto, delle lesioni, della calunnia, per esempio, e l'obbligo al pagamento delle tasse, l'obbligo scolastico, la tutela dell'ambiente, etc. Pensiamo, un attimo, al processo di produzione dei beni pubblici. Alcuni sono prodotti volontariamente attraverso, per esempio, la donazione volontaria del sangue o le donazioni monetarie ad associazioni che supportano la ricerca medica di base; gesti che vengono considerati altamente altruistici; altri beni pubblici, invece, la scuola pubblica, la tutela della sicurezza personale, l'assistenza sanitaria, vengono prodotti attraverso prelievi obbligatori: l'imposizione fiscale.

Così come molti di noi sono disposti a donare il sangue volontariamente, ancora di più, immagino, sarebbero disposti a finanziare privatamente e volontariamente la scuola se questo fosse l'unico mezzo per produrre quel servizio per i nostri figli, in assenza di un sistema fiscale centralizzato. Il fatto, però, che le tasse siano obbligatorie nasconde questo altruismo che rimane solo potenziale. Analogamente ci freniamo dal sottrarre qualcosa dal supermercato solo perché ci sono le telecamere e perché rischieremmo una sanzione o perché riteniamo sia intrinsecamente sbagliato rubare? La semplice osservazione esterna del nostro comportamento non consente di rispondere a questa domanda e quindi la nostra eventuale dirittura morale e rispetto per gli interessi degli altri rimangono invisibili. Un medico che cura con amorevole perizia un malato lo fa per vocazione o perché ha paura di una eventuale causa per negligenza? Un insegnante che si impegna sul lavoro? Un impiegato dell'ufficio anagrafe che è gentile ed efficiente con gli utenti? Spesso le norme legali creano incentivi materiali che promuovono comportamenti prosociali, molti dei quali, però, si sarebbero osservati anche in assenza di norme sanzionatorie.

Questa correlazione tra norme esterne e norme interne può far emergere la convinzione che sia l'obbligo di legge e la paura delle sanzioni e non, piuttosto, la coscienza individuale a farci comportare in un certo modo. Come sottolinea acutamente Jane Mansbridge, al riguardo: “Sottovalutiamo seriamente la frequenza dell'altruismo quando, avendo progettato le nostre vite per far coincidere l'interesse personale e l'altruismo, interpretiamo tale coincidenza come una dimostrazione della pervasività dell'interesse personale piuttosto che dell'altruismo” (Beyond Self-Interest. Chicago University Press, 1990).

La seconda ragione che rende spesso invisibile, perfino sospetto, l'orientamento pro-sociale è una forma tanto ingenua quanto diffusa di darwinismo. L'argomento evolutivo contro l'altruismo è piuttosto semplice. L'evoluzione del comportamento sociale, effettivamente, pone un problema all'interno del paradigma darwiniano. Se il processo di adattamento è il risultato di una selezione che avvantaggia individui con tratti favorevoli, come è possibile allora che si possa evolvere un comportamento che promuove la sopravvivenza degli altri a scapito della nostra? Anche se alcune persone sono capaci di comportamenti prosociali, è certamente vero che molti altri sono, invece, capaci di cercare il proprio benessere sacrificando quello degli altri. In un ambiente dominato dalla competizione quali dei due tipi di individuo verrebbe premiato dalla selezione naturale, quali dei due atteggiamenti, altruistico o egoistico, verrebbe favorito dalla pressione evolutiva? “Nice guys finish last / You're running out of gas / Your sympathy will get you left behind”, cantavano qualche tempo fa i Green Day. “I ragazzi gentili arrivano ultimi … la vostra empatia vi farà rimanere indietro”.

Questa visione ingenua del darwinismo si lega bene con la sua versione più radicale, quella popolarizzata, per esempio da Richard Dawkins nel suo “Il gene egoista” (Zanichelli, 1979). Dawkins non nega l'esistenza di numerose forme di comportamento altruistico, specialmente tra individui imparentati tra loro. La spiegazione di questo apparente altruismo risiederebbe, secondo la prospettiva da lui adottata, nel fatto che la selezione naturale non opera a livello dell'individuo, ma piuttosto, dei suoi geni. Se quindi osserviamo un gesto altruistico – una mamma che sacrifica la sua vita per salvare quella del figlio – questo si spiegherebbe perché il figlio condivide metà del patrimonio genetico della madre e il sacrificio della madre farebbe aumentare la probabilità di quel patrimonio genetico che lei condivide in parte, di sopravvivere e di riprodursi. Lo stesso Darwin era consapevole di questo punto problematico. La sua posizione, benché allora non fosse giustificata da niente se non la sua intuizione, pendeva verso una certa forma di selezione di gruppo: “Una tribù che include molti membri che (…) fossero sempre pronti ad aiutarsi a vicenda e a sacrificarsi per il bene comune, sarebbe vittoriosa sulla maggior parte delle altre tribù; e questa sarebbe un risultato della selezione naturale” (“L'origine dell’uomo e la scelta sessuale”. Rizzoli, 1982).

Una versione moderna di questo ragionamento ha dato vita a quello che viene definito “The haystack model” (il modello del covone). Immaginiamo un campo appena mietuto e cosparso di covoni ben distanziati l'uno dall'altro. Ogni covone dopo qualche tempo viene colonizzato da un gruppo differente di topi. Immaginiamo solo due gruppi, uno dove sono presenti molti altruisti e un secondo dove gli egoisti prevalgono. Gli altruisti con il loro comportamento cooperativo avvantaggiano il gruppo in cui vivono e contribuiscono ad un maggiore velocità nella riproduzione ma, allo stesso tempo, tendono, individualmente, a riprodursi meno degli egoisti presenti nello stesso gruppo. Nel gruppo a prevalenza di egoisti, invece, questi, singolarmente si riproducono più degli altruisti dello stesso gruppo, ma il gruppo, complessivamente, avrà una velocità di riproduzione inferiore a quella del gruppo ad alta prevalenza di altruisti. Quando i covoni di fieno, dopo qualche mese verranno rimossi e tutti i topi si mischieranno nuovamente alla ricerca di una nuova casa, nella popolazione totale la quota degli altruisti sarà aumentata e quella degli egoisti si sarà ridotta. Questa è l'idea che sta alla base di quella che viene chiamata “selezione multilivello”.

Il biologo David Sloan Wilson paragona questi livelli ai quali si sviluppa la competizione a delle matrioske: i geni, poi le cellule, poi l'organismo e infine i gruppi. Quello della selezione multilivello è ancora un concetto piuttosto discusso nella comunità scientifica e non è unanimemente accettato anche se figure di primissimo piano come Edward Wilson, il padre della sociobiologia, ha accolto il concetto. In un articolo scritto a quattro mani proprio con David Wilson afferma: “In un unico gruppo, gli individui egoisti battono gli individui altruisti. Ma gruppi formati da individui altruisti battono gruppi formati da individui egoisti” (“Evolution for the good of the group”. American Scientist 96, pp. 380–389, 2008).

Un ulteriore elemento di complessificazione del ragionamento sia del darwinista ingenuo che di quello radicale viene dagli antropologi culturali che in questi anni molto hanno lavorato intorno al concetto di coevoluzione tra geni e cultura. A questo proposito Joseph Henrich scrive: “L'evento cruciale nella storia della nostra specie è stato quando abbiamo superato la soglia che ci ha fatto entrare in un regime di evoluzione culturale cumulativa, che da allora ha guidato l'evoluzione genetica umana. Questo è il processo che ci ha resi unicamente umani”. Un evento che si può collocare tra gli 850 e i 750 mila anni fa. Da quel momento in poi, un vero e proprio Rubicone, la nostra evoluzione genetica è stata affiancata e per certi versi indirizzata da quella culturale. Le norme sociali hanno colonizzato il nostro modo di pensare ed agire. Continua Henrich: “[molte di queste] si sono inserite in vari aspetti innati della nostra psicologia, tra cui il nostro favoritismo verso i parenti stretti, l'avversione all'incesto, la preferenza per la reciprocità e il desiderio di un legame di coppia” (“The Secret of Our Success: How Culture Is Driving Human Evolution, Domesticating Our Species, And Making Us Smarter”. Princeton University Press, 2016”).

C'è un ultimo ma non trascurabile elemento che spiega la strana infatuazione degli economisti per il concetto di self-interest. La questione riguarda il fatto che per via della loro (nostra!) formazione, che assume a volte la forma di un vero e proprio indottrinamento, gli economisti tendono a diventare mediamente più egoisti di chi ha una formazione culturale di pari livello ma relativa a discipline differenti. Decine e decine di esperimenti dimostrano questo fatto. Quando con alcuni colleghi abbiamo confrontato il comportamento altruistico di un campione rappresentativo della popolazione con quello di un tipico campione di soggetti sperimentali che si arruolano in un laboratorio di economia, generalmente studenti universitari, abbiamo notato un'unica differenza. I soggetti in laboratorio tendevano ad essere meno disposti a condividere le loro risorse con altri. Anche mettendo a confronto questo comportamento con quello tenuto dagli altri studenti tratti dal campione rappresentativo la differenza permaneva. Qual era l'unico elemento che distingueva gli studenti del laboratorio da quelli appartenenti alla popolazione generale? Che mentre questi ultimi avevano background accademici differenti, quelli del laboratorio erano in larga maggioranza studenti di economia (Frigau, L., Medda, T., Pelligra, V., (2019), “From the Field to the Lab. An Experiment on the Representativeness of Standard Laboratory Subjects”, Journal of Behavioral and Experimental Economics 78, pp. 160–169).

La storia di questo filone di ricerca è lunga. Si parte negli anni '80 del secolo scorso con lo studio degli economisti dell'Università del Wisconsin, Gerald Marwell e Ruth Ames, che analizzando undici differenti esperimenti trovano che, effettivamente, gli studenti di economia tendono a cooperare meno di chi ha un background differente. Robert Frank, Thomas Gilovich e Dennis Regan, qualche anno dopo, tornano sul punto: “La questione fondamentale che indaghiamo in questo articolo – scrivono - è se l'esposizione al modello del self-interest altera la misura in cui le persone si comportano in maniera egoistica”. Anche la loro risposta è affermativa. Tra le altre cose trovano che, su un campione casuale di 1245 professori universitari di 23 discipline differenti, solo il 3 percento di quelli che si occupano di scienze naturali dichiarano di non aver mai donato del denaro in beneficienza; percentuali analoghe si riscontrano tra gli umanisti e i matematici. Per gli economisti, invece, primi della classifica, questa percentuale sale al 9.3 percento.

Sorge un dubbio: ma gli economisti sono più egoisti perché studiano economia o l'economia attrae soggetti in partenza più egoisti? La prevalenza dell'ipotesi della “selezione” rispetto a quella dell'“indottrinamento” è stata studiata recentemente da Yoram Bauman e Elaina Rose (“Selection or indoctrination: Why do economics students donate less than the rest?”. Journal of Economic Behavior & Organization 79, pp. 318-327, 2011). Le loro conclusioni sono inequivocabili: gli studenti che scelgono di laurearsi in economia lo fanno perché si sentono attratti da quella disciplina e dimostrano di essere, già in partenza, meno cooperativi e altruisti degli altri. E' vero anche, però, che basta aver seguito anche solo un corso di economia nell'ambito in un altro percorso di laurea per venire “indottrinati” e diventare mediamente meno cooperativi e generosi. Nelle parole degli autori dello studio: “[I nostri dati] mostrano che la formazione in economia porta a tassi di donazione più bassi anche per chi ha seguito solo un corso facoltativo (non major)”.

Chiudono il lavoro con un interrogativo inquietante: “Sono necessarie ulteriori ricerche per determinare la causa di questo effetto, ad esempio, se deriva dall'esposizione a determinati concetticome quello di homo economicus, il dilemma del prigioniero o la mano invisibile – o dall'esposizione a determinate persone – vale a dire, ai professori e agli altri studenti del dipartimento di economia”.

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