I Commenti de "Il Sole 24 Ore" - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore
di Vittorio Pelligra
pubblicato su Il Sole 24 ore del 14/11/2021
Micheal Spence era un giovane studente di dottorato ad Harvard quando lesse per la prima volta, dietro consiglio di uno dei suoi professori, l'articolo di George Akerlof sulle asimmetrie informative e il mercato dei “lemons”. “Fu elettrizzante - racconta Spence – era un'analisi meravigliosamente chiara e plausibile del funzionamento di un mercato con informazioni incomplete e distribuite in modo asimmetrico”. Fu la lettura di quel singolo studio, assieme ai dubbi che Spence già aveva maturato autonomamente circa le conseguenze dell'informazione incompleta nel mercato del lavoro, a far nascere un nuovo ambito di ricerca, la teoria della segnalazione, per la quale, trent'anni dopo, quel giovane dottorando verrà insignito del premio Nobel per l'economia, assieme allo stesso Akerlof e a Joseph Stiglitz.
Provate a mettervi nei panni di un datore di lavoro che deve selezionare dei nuovi collaboratori. Gli aspiranti sono tanti e voi sapete che tra loro differiscono in molte dimensioni, alcune delle quali hanno un impatto determinante sulla loro produttività. Voi, naturalmente, siete interessati a selezionare la persona giusta per il posto giusto, a ottenere un “matching” ottimale tra posizione e candidato. Sfortunatamente la maggior parte di queste dimensioni, le caratteristiche più importanti dei candidati, non sono osservabili, sono qualità nascoste. Ecco che si presenta l'asimmetria informativa: una delle parti nella contrattazione è più informata dell'altra. Se ci fosse un allineamento perfetto tra gli interessi in gioco questo non sarebbe un problema. La comunicazione porterebbe ad uno scambio veritiero ed onesto delle informazioni rilevanti. Sfortunatamente i casi di interessi non perfettamente allineati, però, sono decisamente più frequenti. Anche tra datore di lavoro e candidati gli interessi sono potenzialmente in conflitto. Il primo, infatti, è interessato ad individuare i lavoratori più produttivi, ma tra gli aspiranti ci sono, necessariamente, anche quelli poco produttivi. Questi hanno tutto l'interesse a farsi passare per lavoratori produttivi per spuntare condizioni contrattuali più vantaggiose. C'è in questo caso spazio per dissimulare, per imitare, per intorbidare le acque. Queste caratteristiche del mercato del lavoro, se non gestite opportunamente, potrebbero portare ai classici fenomeni di selezione avversa dei quali ci stiamo occupando ormai da diverse settimane. In questo specifico caso verrebbero assunti principalmente lavoratori a bassa produttività a fronte di livelli salariali minimi. Il contributo di Spence, nel suo lavoro più importante (“Job Market Signaling”, The Quarterly Journal of Economics, 87(3), pp. 355-374), spiega in che modo i candidati nel mercato del lavoro possano utilizzare il titolo di studio come un segnale credibile per contrastare gli effetti negativi della selezione avversa. Il titolo di studio e l'istruzione che esso certifica sono segnali credibili perché sono segnali costosi - non nel senso monetario dell'espressione.
Certo l'istruzione è costosa: rette, libri, materiali, attività extracurriculari, ripetizioni, etc., ma in questo caso, il costo è quello dell'impegno che lo studente deve profondere, delle difficoltà che deve superare, della determinazione e della tenacia che deve dimostrare per raggiungere il successo finale attestato dal titolo. Sono queste le qualità non osservabili che al datore di lavoro interessano di più e che sono correlate con la caratteristica osservabile del possesso di un certo titolo di studio. Affinché, poi, il segnale sia capace di distinguere individui ad alto potenziale da quelli a basso potenziale non basta che sia costoso, ma deve essere costoso in maniera differenziale: ottenere il titolo di studio, in altre parole, deve essere più difficile per chi è a basso potenziale rispetto a coloro che hanno un alto potenziale. In termini estremamente semplificati e un po' brutali, se i datori di lavoro sono convinti di questo fatto, nel mercato si potranno limitare gli effetti nefasti della selezione avversa. Immaginiamo di avere solo due “tipi” di aspiranti al lavoro: uno che, una volta assunto, si impegnerà e sarà altamente produttivo e uno che, invece, non si impegnerà e avrà produttività bassa. Se il datore di lavoro si fa l'idea che solo quelli che hanno studiato un numero X di anni sono ad alta produttività deciderà di offrire a questi un salario più elevato di quello che verrà offerto a chi ha studiato meno di X anni. Ma perché, allora, non studiano tutti, sia gli “alti” che i “bassi” almeno X anni? Perché il costo dell'istruzione, nel senso che abbiamo appena chiarito, non è uguale per tutti. Per gli “alti” ottenere il titolo di studio non è poi troppo costoso e quindi è più probabile che tale costo sia pienamente compensato dall'incremento salariale che vi è associato. Per i “bassi”, invece, è più probabile che il costo necessario per ottenere il titolo risulterà maggiore del possibile vantaggio che otterrebbero in termini salariali. Per questo, per loro è ottimale studiare meno di X anni. In questo modo si può raggiunge un equilibrio efficiente, o meglio meno inefficiente, sul mercato del lavoro.
Un equilibrio detto di “separazione”. Invece di un fallimento del mercato, in cui gli individui ad alta produttività rimangono al di fuori del mercato (ad esempio, emigrando, avviando un'attività in proprio, o perfino scegliendo di non andare avanti con gli studi), i candidati investono in istruzione in maniera diversificata e attraverso questo segnale si rendono riconoscibili ai datori di lavoro che agiscono di conseguenza offrendo livelli salariali commisurati alla diversa produttività degli aspiranti. In questo modo le aspettative dei datori di lavoro secondo cui i lavoratori con produttività diversa scelgono livelli di istruzione diversi, si autoavverano. Esiste una molteplicità di questi equilibri di separazione che può essere ordinata in termini di efficienza paretiana. Siccome l'investimento in istruzione è costoso, quindi riduce l'utilità degli aspiranti e, contemporaneamente, non fa aumentare la loro produttività per il datore di lavoro, superato il livello minimo di istruzione necessario – X anni – ogni ulteriore anno di studio porta ad una riduzione del benessere e, quindi, dell'efficienza paretiana. Se non ci fosse informazione asimmetrica avremmo un mercato efficiente nel quale ogni lavoratore viene pagato in base alla sua produttività. Ma siccome la produttività non è osservabile, allora, saremo costretti a segnalare attraverso l'istruzione: i salari saranno gli stessi ma avremo maggiori costi di istruzione. Ma quelli di separazione non sono gli unici equilibri possibili, ci spiega Spence. Nel peggiore dei casi, il costo legato all'istruzione - nel senso precisato prima - è così ridotto che anche gli aspiranti a basso potenziale possono imitare il comportamento di quelli ad alto potenziale. Si attiva un processo imitativo in virtù del quale alla fine tutti, sia gli “alti” che i “bassi”, decideranno di investire negli stessi anni in istruzione. In questo caso il segnale costituito dal titolo di studio non sarà più in grado di veicolare nessuna informazione utile.
Si verificherà una situazione nella quale il datore di lavoro sceglierà di pagare a tutti gli aspiranti un salario medio che sarà più basso per gli “alti” e più alto per i “bassi” rispetto al caso dell'equilibrio di separazione. Una situazione, dunque, nella quale i lavoratori ad alta produttività “sussidieranno” con parte del loro mancato reddito quelli a “bassa” produttività. I datori di lavoro non ne otterranno nessun beneficio in termini di produttività e i lavoratori, tutti, saranno stati costretti ad spendere troppo in istruzione. Una situazione ancora più inefficiente della precedente. Il modello della segnalazione di Spence, come ogni modello semplificato della realtà, coglie naturalmente solo uno degli aspetti che rende importante studiare e ottenere un titolo di studio. Ci sono molti altri motivi: l'accumulazione di capitale umano, competenze, abilità, autostima, libertà, consapevolezza, cittadinanza, etc. – ma tutti questi ulteriori elementi non tolgono niente al fatto che i titoli di studio possono esercitare anche un importante ruolo di segnalazione. Questo risultato, ricordiamolo, si fonda su una assunzione cruciale: ottenere il titolo di studio dev'essere più difficile per i meno bravi e più facile per i più bravi, così come comportarsi onestamente dev'essere meno difficile per chi è intrinsecamente onesto che per i disonesti. Non sempre è così. Ne parlo spesso coi miei studenti. Tutti vorrebbero prendere trenta all'esame, tutti vorrebbero laurearsi con centodieci e lode. Ma, se queste valutazioni diventassero eccessivamente generose, il valore di segnalazione del loro sudato titolo di studio verrebbe svalutato e perderebbe valore di segnalazione e questo andrebbe a danno di tutti, soprattutto dei più meritevoli. Ancora una volta incontriamo la pervasiva logica del free-rider: l'interesse individuale che confligge con l'interesse collettivo che incorpora anche l'interesse individuale. Una combinazione di razionalità e autointeresse che diventa “self-defeating”, il peggior nemico di sé stessa.
Nel loro recente libro “Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (La Nave di Teseo, 2021), Paola Mastrocola e Luca Ricolfi arrivano, seppure per vie differenti, ad una conclusione simile. La tendenza a confondere l'idea di una scuola inclusiva e democratica con quella di una scuola facile ha portato negli anni ad abbassare gli standard qualitativi delle nostre istituzioni educative. Scrive la Mastrocola esponendo la sua tesi centrale: “Una scuola abbassata, facilitata, non aiuta le classi medio-basse. Abbassare il livello culturale dello studio non è democratico, anzi, è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare”, tanto, poi ci sono le ripetizioni private, le conoscenze dei genitori, le rendite di posizione, aggiungo io. E continua: “Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che lui le sapesse, quelle cose! Non farà né il liceo né l'università, un ragazzo, se non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso (profondo, sfumato, metaforico, ironico...) di quel che legge, e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato. Siamo stati noi a farne uno svantaggiato, uno che non parte uguale”. L'appiattimento dell'istruzione, il livellamento verso il basso degli standard di valutazione, il ribaltamento sociologico del rapporto tra insegnanti e famiglie non hanno fatto altro, in questi anni, che spingerci verso un inefficiente equilibrio di raggruppamento nel quale i più penalizzati sono proprio gli studenti e le studentesse, i nostri figli e le nostre figlie, soprattutto i più fragili. Credo che il giovane Michael Spence, dottorando nella super elitaria università di Harvard, allievo di Nobel come Kenneth Arrow e Thomas Schelling non immaginasse che i suoi modelli potessero portare a conclusioni simili: molto spesso si studia troppo e, soprattutto, male, ed è proprio la logica del mercato del lavoro a produrre un simile spreco di risorse. Perché in presenza di asimmetrie informative, l'interazione tra istituzioni educative e mercato, può spingerci ad abbassare troppo l'asticella e questo, paradossalmente, rischia di penalizzare proprio i più bassi.