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Come un segno meraviglioso

L'esilio e la promessa/7 - Non nei “centri” dei potenti falsi profeti, ma nelle periferie e tra gli ultimi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/12/2018

Ezechiele 07 rid«Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi»

J. L. Borges, Storia della notte

La Bibbia è narrazione di migrazioni, di esili, di popoli nomadi e di tende mobili, è la stupenda storia di un arameo errante che insegue una voce dentro un orizzonte infinito. In un villaggio di esuli nei pressi di Babilonia, per ordine di YHWH, la profezia prese la forma del migrante, e l’homo migrans divenne parola biblica nella carne di uno dei profeti più grandi. E vi è rimasta per sempre. In Ezechiele, profeta povero e esiliato, sacerdote senza tempio di un Dio sconfitto, ogni emigrato della terra può leggere la propria storia, può pregare con le sue parole se ha esaurito le proprie, può sentirlo compagno di bagaglio e di fughe notturne per terra e per mare, sotto lo stesso velo che oscura gli occhi per non morire di dolore.

È passato più di anno dall'inizio dell’attività profetica di Ezechiele, e i suoi connazionali come lui in esilio non capiscono né le parole né i segni del profeta. Il giovane profeta riceve una nuova e specifica parola di YHWH che lo invita a continuare oltre il suo fallimento: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono"» (Ezechiele 12,1-2). Ezechiele sapeva che la sua era una missione impossibile, perché lo aveva ascoltato nel giorno della sua vocazione («Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli»: 2,3). Ma mentre sta provando sulla sua carne la verità di quelle parole del primo giorno, ecco che una nuova parola gli ripete quello che sapeva già. Perché l’annuncio del fallimento è sempre molto diverso dall’esperienza del fallimento, alla quale non si arriva mai preparati.

Riascoltare le parole dell’annunciazione di ieri mentre oggi si lotta e si cerca di resistere, è un dono che consente di continuare la lotta pur sapendo che non vinceremo. Qualche volta le prime parole ritornano dalla stessa voce e (quasi) allo stesso modo; altre volte con la voce di un amico, altre ancora da quella dei poveri o del dolore della terra. E così può accadere che un profeta non rioda più la prima voce perché gli è arrivata "come sottile voce di silenzio" mentre lui l’attendeva nel forte vento o nel terremoto. Ma può anche accadere che le seconde parole non arrivino davvero. Ci sono profeti che hanno camminato tutta la vita con le sole parole del giorno della vocazione. Hanno continuato il cammino e sono diventati parola per gli altri.

YHWH, invece, parla ancora ad Ezechiele, e nonostante il fallimento che sta registrando gli chiede di continuare a produrre gesti e parole profetiche: «Tu, figlio dell’uomo, fatti un bagaglio da esule e di giorno, davanti ai loro occhi, prepàrati a emigrare… Davanti a loro uscirai però al tramonto, come partono gli esiliati. Fa’ alla loro presenza un’apertura nel muro ed esci di lì. Alla loro presenza mettiti il bagaglio sulle spalle ed esci nell'oscurità. Ti coprirai la faccia, in modo da non vedere il paese"» (12,3-6). Ezechiele accoglie la parola: «Allora feci quello che mi era stato comandato» (12,7). In un tempo, come il nostro, dominato dall’ideologia del successo e dall'ossessione di rientrare tra i "vincenti", i profeti ci dicono che ci può essere una vita buona dentro le sconfitte e gli insuccessi, e che la strada buona della vita è frequentata quasi esclusivamente da "perdenti" che continuano a camminare con dignità e a testa alta nonostante le sconfitte. Il fallimento del profeta non è il fallimento della sua profezia, perché l’insuccesso e il non-ascolto sono intrinseci alla profezia e la distinguono da quella falsa.

Fermiamoci un attimo, facciamo sosta, e guardiamo bene questo profeta che incarna la condizione dell’esiliato, del profugo, dell’immigrato. Questo capitolo del libro di Ezechiele ripete molte volte che il profeta fece quei gesti "davanti ai loro occhi". Tra quegli "occhi" ci devono essere anche i nostri, perché quei gesti-segni di Ezechiele continuano a essere vivi ed efficaci se riusciamo a vederli qui e ora, se lo osserviamo svolgere perfettamente il suo esercizio, esposto nella piazza del paese. E così lo vediamo incollare il bagaglio da esule e al tramonto partire dalla sua casa e dal suo villaggio. Nell’oscurità, come tanti migranti, con il fardello sulle spalle, con il volto coperto da un velo per impedire agli occhi umidi di "vedere il Paese" e così non indugiare nella nostalgia della casa lasciata per sempre – quando un immigrato parte vivrà meglio nella nuova terra se non coltiverà il ricordo della casa lasciata, per questo non deve partire con quella ultima immagine nella pupilla (la nostalgia è sempre pessima dote quando si vuole o si deve ricominciare).

Quel segno profetico di Ezechiele non era semplice da decifrare. La maggior parte vi avrà visto la profezia del ritorno a casa, a Gerusalemme. I falsi profeti, presenti e operanti anche in esilio, vendevano come loro prima merce la certezza del ritorno imminente in patria e la fine dell’esilio. Ma Ezechiele rivela un significato radicalmente diverso e sconvolgente: «Tu dirai: io sono un segno meraviglioso per voi. Quello che ho fatto io, sarà fatto alla gente di Gerusalemme; saranno deportati e andranno in schiavitù» (12,11). L’esilio è allora il destino di chi è rimasto in patria: non solo i primi deportati in Babilonia non torneranno, ma sarà presto deportato tutto il resto del popolo (come di fatto avverrà pochi anni dopo, nel 587). Ecco dunque la prima sorpresa: il gesto, sebbene eseguito tra gli esiliati, era indirizzato a chi era rimasto a Gerusalemme. Chissà quanti Ezechiele stanno oggi profetizzando nei nostri campi profughi e di non-accoglienza, e da lì compiono gesti che sono messaggi rivolti a noi. Se vogliamo ascoltare qualche parola vera sul destino che ci attende, non dobbiamo cercarle nelle cattedre e nei templi dei nostri "centri", dove operano molti falsi profeti. Le potremmo trovare nelle periferie, nelle deportazioni, negli esili, nelle infinite peregrinazioni, dove avvengono gesti e segni che noi pensiamo non ci riguardino, e invece sono lanciati proprio a noi che, come i concittadini di Ezechiele, abbiamo la cervice troppo dura per capirli, accoglierli, convertirci.

C’è poi un altro elemento essenziale. Ezechiele si preparò davvero a immigrare, fece realmente il buco nella casa, uscì veramente al tramonto e per la notte vagò esule fuori dal paese. I gesti profetici sono carne viva, altrimenti sarebbero inefficaci e inutili. Sono più "piccoli" dell’evento reale, ma sono veri, e così parlano diventando sacramento e segno: «Perché ti io ho reso un segno meraviglioso per la casa di Israele» (12,6). Questo segno meraviglioso continua a dire parole di carne: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, dovrai mangiare il pane tremebondo e bere l’acqua tremolando e con angoscia"» (12,17-18). È ancora il corpo del profeta a profetizzare, e dice agli abitanti di Gerusalemme che sta arrivando il tempo dell’assedio e poi dell’esilio, quando il pane e l’acqua saranno scarsi e consumati nella paura e nell’angoscia che fanno tremare tutto il corpo. Dopo la paralisi e il mutismo, è ancora il suo corpo a dire le parole più importanti con tremori e sussulti, forse vere e proprie convulsioni. Non sappiamo per quanto tempo durò per Ezechiele quest’esperienza di mangiare e bere con le mani e tutto il corpo tremebondi, ma sappiamo che fu una esperienza reale e vera, che lo toccò e lo ferì, e che forse lo segnò nella carne per tutta la sua vita, perché erano esperienze vere e incarnate.

La dura lotta che i profeti combattono, da sempre, contro i falsi profeti ruota attorno alla parola verità. Se al posto di Ezechiele ci fosse stato un falso profeta, avrebbe indossato una maschera per interpretare un copione da lui stesso scritto. Ezechiele no: mentre esegue il copione che un altro ha composto per lui, nell’eseguirlo egli diventa ciò che rappresenta. In ogni gesto profetico si ripete quell’esperienza mirabile che gli attori hanno fatto almeno una volta nella vita, quando dopo aver recitato molti copioni e molte volte lo stesso copione, una sera mentre si trovano su quello stesso teatro a ridire le stesse parole, accade il miracolo: improvvisamente spariscono palco, pubblico, autore e copione, e l’attore diventa le parole e i gesti che sta recitando. Come rivive l’evento che può (e deve) capitare a chi lavora veramente, quando dopo aver eseguito per anni ordini e direttive esterne, un giorno scompaiono improvvisamente manager, gerarchie, mansioni, e ci accorgiamo che quel lavoro è diventato tutto intimo e tutto anima, che si è annullata quella distanza che separava il nostro lavoro dal nostro cuore. O l’esperienza di chi dopo aver recitato per decenni preghiere e salmi imparati e ereditati dalla comunità, finalmente in una liturgia diversa capisce che è diventato la preghiera che sta dicendo, dove le parole più sante sono quelle pronunciate dal suo corpo tremolante e ferito.

Queste esperienze, straordinarie e a volte uniche, sono la normalità nella vita del profeta, che può dire parole diverse perché prima di dirle le ha "mangiate", perché sono diventate bagagli veri sulle spalle, buchi veri del muro di casa, pane e acqua veramente ingeriti negli spasmi delle convulsioni. Parola fatta carne. Il popolo di Israele non si convertì, non capì e non accolse il messaggio di Ezechiele. Non comprese che il profeta era un segno meraviglioso mandato per loro. Venne fra i suoi ma i suoi non lo hanno accolto. Sei secoli dopo Ezechiele, il profeta divenuto segno di esilio e migrazione, un bambino, un figlio, divenne sacramento e segno meraviglioso per noi. Un divino migrante, che partendo non ha messo un velo per coprire gli occhi, perché voleva che l’immagine della sua "casa" restasse impressa nelle sue pupille, e così noi guardandole potessimo contemplarla. Buon Natale!

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