Ma ogni chiamata è prova

L'esilio e la promessa/2 -È l’intero corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. E il primo mutismo di Ezechiele ci dice cose importanti sulla vita e sulle vocazione.  

Di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 17/11/2018

Ezechiele"Non ci sono più profeti? Non possiamo dirlo; l’importante è distinguere i falsi dai veri profeti, e questo vale per tutte le epoche. Forse l’elemento fondamentale per distinguerli è questo: il falso profeta si sente profeta e il vero profeta non si sente profeta"

Paolo De Benedetti, Elia

Chiunque si ritrova a scrivere per rispondere a una chiamata interiore ha sperimentato, almeno una volta nella vita, che quelle parole che scrive sono state prima ricevute e "mangiate". Le parole scritte che non sono vanitas nascono dal sangue e dalla carne, e così riescono a raggiungere il sangue e la carne di chi le legge, e lasciare il segno (in-segnano). Quando, ogni tanto, sentiamo che una parola diversa ci tocca, ci insegna e ci cambia (e se non ci è mai capitato non abbiamo ancora iniziato veramente a leggere), quella parola aveva già toccato e segnato il corpo di chi l’aveva scritta, perché era uscita da una ferita. La profezia è un evento di parola, di parole e di corpo. Perché tra la parola ricevuta e quella detta e scritta c’è il corpo del profeta. È l’intero suo corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. Tutti i profeti, soprattutto Ezechiele.

Dopo la visione e l’ascolto delle prime parole, il primo ordine profetico che Ezechiele riceve riguarda proprio il suo corpo: «"Apri la bocca e mangia ciò che io ti do". Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra e conteneva lamenti, pianti e guai» (Ezechiele 2,8-10). E poi il gesto si specifica: «"Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo"» (3,3). Il rotolo entra nelle viscere, viene digerito, diventa parte del corpo del profeta. La parola che dovrà annunciare lo penetra fino alle midolla. A Isaia, nel giorno della vocazione, Dio tocca la bocca con un tizzone ardente (Is 6,6). Ezechiele mangia un rotolo di papiro, quindi una parola scritta, perché è un profeta scrittore. È infatti probabile che Ezechiele abbia scritto personalmente buona parte del suo libro, pertanto nella sua vocazione si ritrova un rapporto speciale con la parola ascoltata, assimilata e poi scritta.

È molto forte e suggestivo questo rotolo spiegato che diventa cibo. Un episodio che non solo ha ispirato profondamente la tradizione spirituale cristiana (la ruminatio), ma che ci rivela quanto sia profondo il nesso tra la parola e la carne. C’è anche Ezechiele dentro la possibilità di pensare e scrivere quella frase infinita che per secoli veniva letta alla fine di ogni messa: Il logos si è fatto carne. La parola profetica è parola incarnata, che quindi subisce e condivide tutte le vicissitudine e le dimensioni del corpo. Si ammala e soffre, è fortissima e fragilissima, ma a differenza del nostro corpo la parola profetica può non morire se diventa parola raccolta e custodita da una comunità fedele e viva. La Bibbia è anche sacramento dell’immortalità delle parole dei profeti – ogni parola scritta con la carne racchiude un desiderio di immortalità.

Al tempo stesso, anche se il profeta è impastato di parola ricevuta, non è il padrone della parola che dice. Il profeta resta un mendicante povero e affamato di parola. La profezia non è un mestiere, non si impara con l’accumulo d’esperienza, e lo scorrere del tempo fa solo diventare più coscienti di questa tipica indigenza e fragilità. È forse anche questo un significato della misteriosa esperienza che troviamo all’inizio della missione di Ezechiele: «Allora uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi. Egli mi disse: "Va’ e chiuditi in casa. E subito ti saranno messe addosso delle funi, figlio dell’uomo, sarai legato e non potrai più uscire in mezzo a loro. Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto… Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: dice il Signore Dio"» (3,24-27). Ha appena ricevuto la chiamata a profetizzare, ed ecco che Ezechiele si ritrova muto e recluso dentro casa, in balìa di impedimenti nel corpo che si ripeteranno periodicamente nella sua vita. Ezechiele fa subito l’esperienza del non controllo della parola che riceve e che deve annunziare. È parte della sua carne, eppure ha una sua radicale libertà. In questo i profeti sono simili ai padri e alle madri. I figli sono carne e sangue, ma non sono nostra proprietà. Vanno e vengono, nel frattempo noi restiamo incatenati in casa, mendicanti di ritorni e di liberazioni. Anche per questo Maria di Nazareth, la madre che dà le carni al Logos, è espressione ultima e icona della profezia biblica.

È l’indigenza radicale di parola che distingue i profeti dai falsi profeti, i quali non sperimentano il mutismo e le catene perché vendono nei mercati soltanto parole auto-prodotte. Il profeta non-falso riconosce una parola diversa perché gli arriva sul suo mutismo, perché lo libera dalle catene delle chiacchiere sue e degli altri («Quando poi ti parlerò...»). È l’alternarsi di silenzio e parole il ritmo della vocazione profetica. Per capire il rapporto che un profeta vero ha con la parola non sua che deve trasmettere, non dobbiamo pensare ai tecnici della retorica, né a brillanti parlatori, quanto piuttosto al balbuziente, a chi lotta con il proprio corpo per riuscire ad emettere a tutti i costi qualche parola comprensibile. La forza della profezia non-falsa è proporzionale alla fatica di partorire parole sulla resistenza tenace del corpo.

Questa afasia e reclusione domestica ci rivelano poi alcuni elementi essenziali della grammatica della vita spirituale, almeno di quella biblica. Ezechiele è chiamato a svolgere un compito che ha a che fare costitutivamente con l’uso della parola e con luoghi pubblici. Dopo pochi giorni si ritrova ammutolito e agli arresti domiciliari, per opera dello stesso "spirito" che gli aveva rivelato il suo compito. Un paradosso, ma non per la Bibbia. Mosè incontra YHWH sull’Oreb, e dal roveto ardente gli assegna il compito di liberare il suo popolo. Si mette in viaggio verso l’Egitto, ma «mentre era in cammino il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire» (Es 4,24). Molto tempo dopo, un altro "profeta", che aveva ricevuto il "compito" di annunciare e portare un altro Regno, si ritrova su una croce a gridare l’abbandono. Chi cerca un dio lineare, che quando assegna un compito stipula con noi un contratto completo con annessa job description, deve andarlo a cercare fuori della Bibbia (e della vita). Il Dio biblico è diverso, perché la vita è diversa, perché l’uomo è diverso.

Non è infatti raro che nelle vocazioni autentiche, al giorno luminoso della chiamata faccia seguito l’esperienza dell’impossibilità di realizzarla, una esperienza altrettanto fondativa ed essenziale. Si parte perché chiamati a svolgere un compito, e una volta partiti ci si ritrova impediti nell’anima e/o nel corpo a fare esattamente ciò che dovevamo fare. Si sente chiaramente una vocazione scientifica, artistica, professionale, religiosa, matrimoniale, e il "giorno dopo" la chiamata quella stessa prima voce ci dice o ci fa fare l’opposto. Qualche volta questa seconda esperienza arriva molto presto: la settimana dopo essere entrata in noviziato, o durante il viaggio di nozze. Poi, all’improvviso e inaspettata, giunge una nuova parola e si riparte, per essere fermati da un altro mutismo e da altri legacci, uguali e tutti diversi. Fino alla fine, quando un altro mutismo ci fermerà, e, anche lì, resteremo in attesa di un’altra nuova parola.

Esperienze umanissime e frequenti, dentro e fuori le religioni. La Bibbia ci dice che queste sono state anche le esperienze dei profeti, degli uomini più intimi a Dio; e mentre ce lo dice ci lancia un messaggio di grande speranza e vicinanza. Li leggiamo e ci sentiamo visti e capiti e quindi inclusi nella stessa storia di salvezza. Il primo prossimo della Bibbia non è il buon Samaritano, ma la Bibbia stessa. Ci sono persone che hanno iniziato un autentico cammino spirituale perché un giorno, dentro una grande disperazione, hanno letto o ascoltato un episodio narrato nella Bibbia. Lo hanno riconosciuto come qualcosa di familiare e intimo, si sono sentiti letti dentro, hanno sentito che quel loro dolore era stato già vissuto e amato, e lì hanno iniziato a risorgere.

Infine, in questi primi capitoli sulla vocazione di Ezechiele, ritroviamo anche la grande bellissima immagine della sentinella: «Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (3,17). Come Isaia, Geremia, Amos, Osea, anche Ezechiele è chiamato a essere sentinella. Isaia (cap. 21), il grande riferimento biblico per l’immagine profetica della sentinella, aveva usato la parola ebraica shomer: sentinella come custode. Shomer è anche parola usata da Caino quando non rispondendo alla domanda di Dio ("dov’è tuo fratello?") si auto-dichiarò non custode di Abele suo fratello. Lo aveva ucciso perché non era stato custode (Gn 4). La custodia reciproca è un nome della fraternità.

Il profeta è l’anti-Caino, è colui che custodisce Abele, che allarga il territorio della fraternità per farlo coincidere con l’intera città, e sulla torre di vedetta guarda oltre questa, verso l’orizzonte della terra fraterna di tutti. È nel suo posto di guardia, sospeso tra cielo e terra, abitatore solitario delle mura di cinta. Non è lì per avvistare nemici, ma per intercettare una voce parlante diversa, e poi trasmetterla a ogni costo. I profeti non hanno mai smesso di custodire le nostra città. Stanno lì, hanno imparato a restare, ad accompagnarci nei sabati santi della storia. E ogni tanto, nei giorni più silenziosi, qualcuno riesce ancora a udire il loro grido.

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