L’anima e la cetra/4 - Capire il peso di Dio e la gloria dell’uomo
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire 19/04/2020
Chiuso
fra cose mortali
(anche il cielo
stellato finirà)
perché bramo Dio?
Giuseppe Ungaretti, Dannazione
La preghiera è una dimensione essenziale e universale della vita umana. Il salmo quattro ce la rivela, e ci offre il senso di una grande speranza in questi tempi difficili.
«Al mio grido sei tu, mio Dio, la risposta che salva! Dagli spazi ristretti portami in spazi liberi; pietà di me, ascolta la mia preghiera» (Salmo 4,2). Dagli spazi ristretti salvami o Dio. Le parole si imparano una alla volta. Nei nostri spazi divenuti improvvisamente ristretti in tempo di pandemia, possiamo capire la metafora con cui inizia il Salmo 4. Forse solo chi è abituato agli orizzonti liberi e si ritrova nell’angustia forzata scopre il valore infinito degli «interminati spazi».
Questo salmo è la preghiera di un uomo che attraversa una grande difficoltà che lo mette alle strette: «O gente dal cuore duro, fino a quando il nulla adorerete? Cultori di illusioni, fino a quando offenderete la mia gloria?» (4,3). Fino a quando? È la domanda, frequente nella Bibbia, di chi si trova in una condizione non transitoria di angoscia. È la domanda della sentinella che ancora nel pieno della notte attende l’aurora lontana; di chi, incastrato in una trappola, precipitato nella sventura, riesce solo a chiedere a Dio e alla vita: fino a quando? Quanto manca al giorno? Quando questa violenza avrà fine? Quest’uomo orante era attaccato da calunniatori, da gente bugiarda che lo accusava di colpe inesistenti e gravi. L’uomo del salmo è una vittima.
La parola chiave è gloria: kavod/kabod in ebraico. È una delle parole più importanti della Bibbia, della sua teologia, che nel salmo diventa anche una parola della sua antropologia. Quest’uomo si sente offeso nella sua gloria, si sente spogliato del suo onore (sinonimo di gloria). La gloria è ciò che si vede, che appare, che quindi ha a che fare con gli altri che ci guardano. È una parola della vista. Per l’uomo antico, più radicalmente che per noi, l’identità è costitutivamente relazionale. Io sono ciò che gli altri riescono a vedere e a riconoscere. La fama è una dimensione fondamentale della vita, come lo sono l’onore e la gloria. Al tempo stesso, la negazione dell’onore è negazione di qualcosa di intimo: anche se riguarda il vedere, l’onore non ha a che fare con l’apparire ma con l’essere, è un attributo dell’anima. Ecco perché la calunnia e la menzogna che toglievano onore e gloria denudavano l’uomo e la donna della loro dignità. Ieri, e oggi, quando la privazione dell’onore passa anche dalla negazione del lavoro, quando la gloria scompare insieme alla propria azienda fallita. L’onore è forse ciò che abbiamo di più intimo, ma è anche ciò che più risente e dipende dalle parole e dagli occhi dell’altro. È il mistero della persona, che vive dentro un legame essenziale tra interno ed esterno. La natura sostanziale della relazione rende la persona umana radicalmente vulnerabile ed esposta allo sguardo dell’altro. Perché se "io sono tu che mi fai", allora il tuo "farmi male" può arrivare alla stessa profondità del tuo "farmi bene".
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