La fiera e il tempio

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Amore alla gente del mondo è l’«arte della mercatura»

La fiera e il tempio/11 - Esemplare la tessitura di relazioni che fece grande il toscano Francesco Datini. Pessimismo, cinismo, invidia e diffidenza sono i grandi vizi capitali dell’impresa.

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 17/01/2021

Commercio virtuoso e di successo è quello di chi lavora per denaro e insieme per vocazione. Le due cose insieme. La ricchezza, come la felicità, arriva cercando (anche) altro.

Chi osserva la vita economica da lontano, spesso finisce per perdersi le note più belle di questo pezzo di vita. Vede incentivi, riunioni, uffici, algoritmi, razionalità, profitti, debiti. Quasi mai si accorge che dietro strategie, contratti e affari ci sono delle persone, e tra queste ce ne sono alcune che in quelle imprese ci mettono la carne, tutte le loro passioni e intelligenza, la vita. Da lontano e da fuori vediamo le tracce del lavoro, raramente vediamo il corpo di chi quelle tracce lascia, quasi mai vediamo l’anima. Ma quando riusciamo a vedere le anime, in quelle stesse imprese vediamo spiriti e demoni, angeli salire e scendere dal paradiso. 

Le lettere, i diari e le memorie dei mercanti del Trecento e Quattrocento italiano ed europeo sono fonti preziose perché ci fanno entrare dentro l’anima delle persone dei mercanti nella fase aurorale di questa professione. La vita e le lettere di Francesco di Marco Datini (1335-1410) hanno dei tratti straordinari e appassionanti. Francesco era figlio di Marco (di Datino), un macellaio di Prato che morì, insieme alla moglie e due dei quattro figli, durante la peste del 1348. Francesco fu cresciuto da Piera, la vicina di casa – il "buio" Medioevo sapeva fare anche questo. Dopo un breve periodo a Firenze come garzone, a quindici anni parte per Avignone, dove prima fa il ragazzo di bottega e poi inizia il suo mestiere di mercante. Fondò una vera e propria multinazionale, con aziende a Prato, Avignone, Firenze, Pisa, Barcellona, Valencia, disponendo alla fine della sua lunga vita di un patrimonio di oltre 100mila fiorini, che lasciò in beneficenza. L’Europa l’hanno creata soprattutto monaci e mercanti, spirito e commercio, che insieme hanno fatto cose stupende.

Nei trentadue anni in Avignone realizzò, dunque, una notevole ricchezza, tanto che quando tornò a Prato era chiamato «Francesco ricco» (Paolo Nanni, Ragionare tra mercanti: per una rilettura della personalità di Francesco di Marco Datini). Diede vita a un innovativo sistema aziendale, una vera holding: ogni impresa aveva una sua autonomia economica e giuridica, ma la compagnia fiorentina "Francesco Datini e compagni" deteneva le quote di maggioranza di quella complessa rete aziendale, che si snodava nelle principali piazze europee, incentrata sulla produzione e il commercio della lana, della seta e «di ogni chosa volesse trafficare». Un tale network mercantile si reggeva soprattutto su una fitta e densa trama di relazioni. Ed è nell’arte della mercatura intesa come arte delle relazioni che si svela il genio di Datini.

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