Se la scuola inizia a distinguere gli studenti in leader e follower, mina uno dei pilastri dell’educazione: la riduzione in classe delle diseguaglianze naturali e sociali per creare quella comune cittadinanza essenziale a ogni patto sociale.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 04/05/2024
Leadership è diventata parola sacra della nuova religione del capitalismo. La si invoca ovunque. Anche gli ambienti ecclesiali – dove si incontrano corsi sulla leadership di Gesù, di san Benedetto e persino di san Francesco – ne sono ammaliati. Nonostante il fondatore del Cristianesimo abbia detto: «Non vi fate chiamare guide (cioè leader), perché una sola è la vostra guida» (Mt 23,10), e poi costruito tutto l’umanesimo cristiano attorno al concetto di sequela, che è l’esatto opposto della leadership. E invece, pur moltiplicandosi gli aggettivi (inclusiva, gentile, comunitaria …), il sostantivo, leadership, non viene mai messo in discussione.
Le ragioni dell’affermarsi di questo nuovo dogma sono molte, ma alla radice c’è una nuova grande fragilità relazionale ed emotiva di lavoratori e dirigenti, in un mondo che ha disimparato come si lavora insieme. E così, da una parte, critichiamo il patriarcato e tutto l’umanesimo di quel mondo gerarchico, e poi, dall’altra, edifichiamo una cultura della leadership che, sotto molti aspetti, è più patriarcale del patriarcato (è impressionante come il movimento femminista non si sia ancora accorto di quanto maschilismo sia incorporato nell’idea di leadership).
Un preoccupante fenomeno recente, poi, che dice la direzione che questo nuovo umanesimo del business sta prendendo, ha a che fare con il mondo della scuola. Mi hanno colpito i racconti di due colleghe riguardo ai colloqui avuti con gli insegnanti dei loro figli e figlie. Quei docenti hanno ripetuto, con parole simili, uno stesso concetto: «Sua figlia, suo figlio, ha tutte le caratteristiche per diventare una leader della classe, ma non siamo sicuri che ce la faccia, perché ce ne sono altre e altri con cui compete: dovete aiutarla a casa a rafforzare le sue doti di leader».
Questi ragionamenti pensavo si limitassero all’ambiente universitario e invece i colloqui riportati si riferiscono alla scuola secondaria, dove la mentalità aziendale sta entrando pesantemente (forse tra poco arriverà anche nelle scuole primarie). Il cambiamento, infelice, del nome del ministero dell’Istruzione (divenuto pure «del merito») aveva già segnalato un cambiamento di cultura educativa nel Paese, perché la meritocrazia e la leadership sono due facce della stessa medaglia: il leader è diverso dal vecchio «dirigente» o «capoufficio», anche perché si merita la sequela dei suoi «dipendenti», diventati «followers» (attenti al linguaggio dei social su questo ).
Ma se la scuola inizia a distinguere e a dividere gli studenti in leader e follower, mina alle sue fondamenta uno dei pilastri dell’educazione dei bambini e dei giovani: la riduzione in classe delle diseguaglianze naturali e sociali per creare quella comune cittadinanza essenziale a ogni patto sociale. A scuola i giovani dovrebbero imparare a essere compagne e compagni di tutti, perché la fraternità civile inizia nelle aule scolastiche. Esistono già meccanismi per differenziare «i meriti» scolastici, che si chiamano giudizi e voti, e tutti in classe sanno chi sono i compagni più bravi e quelli che lo sono meno o che sono più bravi in altre discipline. Se invece a queste diseguaglianze inevitabili di talenti e di opportunità iniziamo ad aggiungere le doti di leadership che avrebbero solo alcuni, le diseguaglianze cresceranno sempre di più fino a distruggere la convivenza civile.
L’aspetto più deleterio di questa ideologia-religione del business è il suo presentarsi come innocua, e quindi accettata senza colpo ferire da insegnanti e famiglie. C’è bisogno di una nuova attenzione da parte di tutti su che cosa sta accadendo nel mondo della scuola.