Oggi dovremmo prendere la parte ancora viva del cristianesimo e inculturarlo nel nostro tempo post-cristiano, che non capisce più i linguaggi della fede, ma che li capirebbe con una adeguata operazione culturale e narrativa.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/03/2023
La cristianità, cioè la civiltà cristiana, non è nata solo dal Vangelo. È stata il risultato di una ibridazione tra vangeli, Bibbia, cultura greco-romana, civiltà italiche ed europee, e poi longobarda, nordica, slava, bizantina, araba. L’Europa cristiana è il frutto di questo meticciato, molto più ricco e variegato delle sole teologia o fede cristiana. La pietà popolare è un intreccio di molti fedi e tradizioni, le processioni hanno progressivamente preso il posto delle processioni pagane dedicate agli dèi dei campi e della natura. La grande maggioranza di italiani ed europei pre-moderni non aveva alcuna idea di che cosa fosse la Trinità, della differenza tra Gesù e Dio Padre, di quella tra Gesù, la Madonna e i santi: erano tutte divinità da cui, credeva, dipendesse la vita. Nelle loro feste gli antichi europei e italiani continuavano a cantare le solite canzoni dietro baldacchini che avevano solo cambiato la statua trasportata, e a volte neanche questa.
Questo meticciato è continuato, senza grosse discontinuità, fino al Novecento. La religione di mia nonna e mio nonno, contadini e cristiani, era fatta di preghiere in latino-dialetto dal contenuto incomprensibile. In Maria non vedevano tanto la sua immacolata concezione, ma che era stata madre, che aveva partorito al freddo e al gelo in una stalla, che era stata sotto la croce del figlio, che lo aveva tenuto, morto, sulle sue braccia. Come facevano loro, come facevano le donne e le madri. Non conoscevano i dogmi cristologici, ma sapevano che Gesù era buono, amava i poveri e guariva i malati, che era morto crocifisso con sua madre sotto la croce, che quindi anche lui aveva sofferto molto, forse più di loro. E per questo lo amavano, e non serviva altro per credere che anche Dio Padre era buono, ma poteva sempre arrabbiarsi e punire (l’idea che Dio fosse solo amore non è mai stata quella del popolo). Ancora oggi mio padre sa recitare a memoria soltanto una preghiera in un misto di italiano e dialetto ascolano. Non è tra quelle imparate a catechismo (che credo non abbia mai fatto, il catechismo era roba da ricchi o per i bambini delle città), una preghiera teologicamente imperfetta, ma piena della vita e della fede della gente. Gente che non sapeva nulla di teologia, ma il 28 dicembre, nella memoria della «strage degli innocenti» per mano di Erode, non tagliava il pane per non dover impugnare il coltello.
La Chiesa, soprattutto quella cattolica, non ha dunque avuto paura di prendere feste pagane e integrarle nella civiltà cristiana. Oggi dovremmo fare una operazione simile e simmetrica: prendere la parte ancora viva del cristianesimo e inculturarlo nel nostro tempo post-cristiano, che non capisce più i linguaggi della fede ma che li capirebbe con una adeguata operazione culturale e narrativa. Come i cristiani presero i templi pagani e ci costruirono sopra le nuove chiese (a Siracusa o Ascoli si vede ancora bene), oggi dovremmo prendere le colonne ancora vive della cristianità – soprattutto quelle spirituali – e costruirci sopra nuovi edifici spirituali che possano essere riempiti dalle donne e uomini del nostro tempo, che non capiscono più il linguaggio teologico del XX secolo ma hanno sempre sete e fame di Dio, di salvezza, di Cristo. Un’operazione difficile, ma essenziale: altrimenti, la depressione sarà la pandemia dei prossimi anni. Siamo in grave ritardo. Dietrich Boenhoeffer lo aveva scritto nella stupenda lettera dal carcere del 30 aprile 1944, quando annunciò il bisogno di dar vita a un cristianesimo post-religioso. In ritardo, ma forse ancora in tempo.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA