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Il valore delle cose (e delle persone)

Molte cose nella vita valgono perché sono scarse, rare, così rare da essere indispensabili.

di Luigino Bruni

pubblicato su pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 17/02/2022

Nessuna persona di buon senso ha mai creduto che molti conoscenti possano compensare il valore di un amico, né che moltiplicare il numero di rapporti umani aumenti, automaticamente, la nostra felicità. E invece l’economia moderna si è proprio fondata sull’idea che la quantità sia di per sé un valore importante. I primi a intuirlo furono i Fisiocratici, una scuola francese di metà Settecento, gli inventori del moderno concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL o GDP in inglese). Loro introdussero l’idea che la ricchezza vera di un popolo non è data dai suoi capitali (palazzi, miniere, laghi, mari), ma dai suoi flussi di reddito. Noi siamo ricchi, dicevano, non perché abbiamo miniere d’oro ma perché riusciamo a far diventare quelle miniere monete. Ma senza il lavoro e tutto il meccanismo di trasmissione dell’economia, possiamo vivere con splendidi giacimenti di oro e stupende spiagge e restare poveri (e lo vediamo ancora oggi). Da qui l’idea che questo flusso periodico (annuale) di merci sia il vero indicatore della ricchezza di un Paese, di una impresa, di una famiglia. E quindi che la ricchezza sia legata alla quantità.

In un mondo con poche merci e una povertà endemica di cose e di reddito, com’era quello di pochi decenni fa (e come continua a esserlo ancora in molte parti), un indicatore di quantità di merci prodotte diceva qualcosa d’importante, e servirà sempre, in tutte le economie, un indicatore di produzione (magari misurata un po’ meglio dell’attuale PIL). Ma più una società sviluppa dimensioni immateriali di benessere, più inizia a dare importanza alla qualità, meno gli indicatori di quantità sono quelli importanti. Ci sono dimensioni della qualità facilmente traducibili in quantità (e prezzo): hotel, confort, abbigliamento, case… Ma ce ne sono altre, sempre più decisive, che restano intraducibili in quantità, e quando lo facciamo le snaturiamo, non le capiamo più. Una serata con un amico caro o con la persona che amo non vale in genere di più se a quella cena invitiamo dieci persone. Questo vale anche per aspetti molto semplici. Pensiamo a una persona povera che ha un solo vestito buono per le feste (ricordo mia nonna). Questa lo cura, lo custodisce perché sa che è l’unico. Se questa persona diventa ricca e di vestiti buoni della domenica ne compra dieci, certamente la sua quantità di cose aumenterà, ma il valore del bene «vestito della domenica» si ridurrà, perché non sarà più 1 ma 1/10, una frazione del valore di prima.

Oppure, pensando ai rapporti umani, ci sono delle persone e delle attività importanti nella vita proprio perché e solo in quanto sono uniche: una moglie, un genitore, quella persona, io, tu. La moltiplicazione di cose importanti in quanto uniche le svilisce. Una verità antica, eppure messa in radicale crisi dalla civiltà della quantità. Che sta progressivamente entrando anche nel regno dei rapporti umani. Facciamo fatica a fare alcuni doni a persone speciali per le quali sarebbe necessario molto tempo che non abbiamo più e un solo dono scelto e pensato per lei, per lui; e così invece di un dono facciamo dieci regalini, pensando che alla fine il numero compensi la poca qualità messa in quel rapporto. Non riusciamo a coltivare qualche amicizia vera e, sempre più, ci illudiamo che cento amici su Facebook valgano quell’amico che non c’è più per incuria reciproca. E ora con i vocali di whatsapp possiamo anche rinunciare a parlare al telefono, perché bastano monologhi meno «costosi» e impegnativi. Molte cose nella vita valgono perché sono scarse, rare, così rare da essere indispensabili.


Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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