Se l’economia vuol veramente evolvere verso il sostenibile, deve diventare meno animale e più vegetale.
di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio l'11/11/2021
«Transizione ecologica» è un mantra del nostro tempo. Quasi sempre, però, la transizione ecologica viene ridotta a un problema tecnologico, politico, magari giuridico e di comportamenti dei cittadini, senza mettere in discussione il paradigma economico che ha generato i disastri ambientali che stiamo osservando e subendo. L’economia, teorica e pratica, degli ultimi due secoli ha seguito un paradigma animale. Nel pensare alle imprese, in particolare, le ha immaginate come un uomo, o un cervo: il cervello, da cui tutto dipende, la divisione degli organi che corrisponde alla divisione delle funzioni. Velocità di spostamento di fronte alle crisi (incendio, carestie, pericoli), come sanno ben fare gli animali, e gerarchia tra i vari organi.
Ma la logica animale non è l’unica che esiste sulla Terra. La grande quantità della vita sul pianeta è composta anche dalle piante. Le piante – circa cinque milioni di anni – hanno seguito una strategia evolutiva diversa: hanno «scelto» di stare ferme, ancorate al suolo. Questa opzione fondamentale ha determinato il diverso sentiero evolutivo delle piante e indirettamente degli animali. Le piante, infatti, hanno dovuto imparare a conoscere perfettamente l’ambiente dove erano fissate, a sviluppare fino a venti sensi per misurare e monitorare tutto attorno a esse, perché se passi tutta la vita nello stesso luogo, quel luogo lo devi conoscere perfettamente.
E siccome gli animali vivevano mangiando le piante, esse hanno dovuto sviluppare una grande resilienza, che le aiutasse a resistere e a continuare a vivere anche quando perdevano gran parte del loro corpo – una pianta può continuare a vivere anche perdendo l’80-90 per cento del proprio corpo –. E non avendo né cervello né organi, hanno dovuto imparare a pensare, vedere, sentire, comunicare con tutto il corpo, valorizzando soprattutto le periferie, le zone più a contatto con l’ambiente. Soprattutto hanno dovuto imparare a vivere in perfetta cooperazione con tutto il bosco, perché un albero sopravvive se sviluppa rapporti di mutualità con il bosco intero.
L’economia moderna ha raggiunto risultati sbalorditivi in termini di ricchezza, grazie alla sua velocità e alla sua capacità predatoria (spostarsi di fronte a un problema in cerca di nuove risorse). Non ha certo seguito le piante nel loro essere ancorate al suolo, nel loro vedere, pensare, agire con tutto il corpo. E così è stata più vulnerabile: se colpisci un’impresa alla testa o al cuore, l’impresa muore (basta vedere che cosa accade spesso quando il fondatore va in pensione). Se l’economia vuol veramente evolvere verso il sostenibile, deve diventare meno animale e più vegetale. Meno gerarchia e più potere distribuito, meno velocità, meno spostamenti fisici di persone e di merci, più ancoraggio al territorio, più capacità di pensare e di vedere con tutto il corpo.
Le cooperative avevano tentato un’organizzazione vegetale (territorio, poca gerarchia, ogni socio è centro), ma nella competizione globale hanno prevalso le grandi multinazionali. Il XXI secolo vedrà grandi cooperative orizzontali e vegetali, una slow economy legata al territorio, organizzazione piatte capaci di vedere, pensare, udire con tutto il corpo. Se non accadrà, la green economy sarà l’ennesima verniciatura che non cambia la natura del modello economico. Impariamo dalle piante e dalla loro intelligenza: sono accanto a noi da milioni di anni, ma non le abbiamo viste veramente. Per vederle dobbiamo rallentare la nostra corsa sfrenata, fermarci, guardarle, capire, e poi imparare.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA