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E i francescani sconfissero l’invidia…

L’aumento dell’invidia sociale è soprattutto segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 19/10/2021

«Il commercio ha insegnato alle nazioni a vedere con benevolenza la ricchezza e la prosperità l’una dell’altra. Prima il cittadino desiderava che tutti gli altri paesi fossero deboli, poveri e mal governati, tranne il proprio: ora vede nella loro ricchezza e progresso una fonte diretta di ricchezza e di progresso per il proprio paese» (J.S. Mill, Principles of Political Economy, 1848). Questa frase del grande economista e filosofo inglese è tra le più belle definizioni di cosa sia veramente il mercato, quando ci liberiamo dalle ideologie di ieri e di oggi e lo guardiamo come economia civile, dove dunque la possibilità di scambiare e produrre è una forma della libertà dei moderni e un mezzo di incivilimento.

Questa filosofia è stata non solo quella dei mercanti fiorentini, ma ha ispirato anche i primi frati francescani. Se infatti volessimo sintetizzare in una battuta in che cosa consistette la novità etica alla radice della nascita dell’economia di mercato in Europa, potremmo dire: la trasformazione dell’invidia in benevolenza. La ricchezza degli altri, che nel mondo antico e alto medievale era occasione di invidia, di rabbia sociale e quindi di violenza, attorno al XIII secolo iniziò a diventare qualcosa di positivo. Il commercio divenne il primo meccanismo che può operare la trasformazione dell’invidia in benevolenza.

Se esiste la possibilità di scambiare con chi è più ricco di me, allora posso orientare una parte della sua ricchezza a mio vantaggio. Un commercio che da faccenda limitatissima, marginale ed eticamente sospetta, divenne così nel Trecento arte civile e ben vista da tutti. Il commercio divenne civil mercatura, grazie a un grosso lavoro teologico, soprattutto dei maestri francescani e dei domenicani. Senza l’improbabile e imprevista alleanza tra l’altissima povertà dei francescani e la civil ricchezza dei mercanti non avremmo avuto i miracoli economici, sociali, religiosi e artistici dell’ultimo medioevo, dell’umanesimo, e oggi l’Italia e l’Europa sarebbero molto più povere.

Ma questa grande e buona trasformazione dell’invidia, sentimento naturale, non è solo una buona legge economica, è la regola aurea della vita in comune. Che impariamo ad apprendere a scuola, quando capiamo che se io non sono il più bravo della classe, invece di invidiare chi è più bravo di me è bene cercare di studiare con lui o lei. E poi nel mondo del lavoro, dentro il nostro ufficio, fare dei colleghi più bravi nostri alleati per crescere insieme, e trasformare così l’energia negativa e distruttiva dell’invidia, l’unico vizio non associato a un piacere ma a un dolore. Educare i giovani all’anti-invidia significa educarli alla cooperazione.

Finché siamo in una società bloccata, dove i figli dei poveri saranno quasi sicuramente poveri anche loro, vedere la ricchezza degli altri ci procura solo delle emozioni negative, tra queste l’invidia, perché non riusciamo a vedere nulla di buono per noi nella ricchezza degli altri. Quando aumenta la mobilità sociale, quando il ragazzo oggi più povero ha buone speranze che, se si impegna e lavora duro, domani potrà vivere meglio, allora le ricchezze degli altri (almeno una parte) diventano emulazione e imitazione di quelle virtù che le hanno generate.

Ecco perché dobbiamo rattristarci e protestare per un’Italia dove diminuisce la mobilità sociale, dove la probabilità di fare oggi una vita migliore di quella che hanno fatto i propri genitori è in calo rispetto alla generazione passata. Abbiamo curato l’invidia con la democrazia. Allora l’aumento dell’invidia sociale è soprattutto un segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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