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Torneranno gli applausi

Applaudire è una forma importante di dialogo, è relazione, è reciprocità, è comunità. È amore. Forse lo avevamo dimenticato...

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/02/2021

Un teatro al termine di un’opera, l’ultima lezione del corso universitario, un gol allo stadio, l’ultima nota di una canzone… Che cosa hanno avuto in comune, nell’anno speciale che si è da poco concluso? Li ha accomunati un silenzio che ha preso il posto di quello che fino a dodici mesi fa era l’applauso.

Applaudire una compagnia di teatro, un cantante, il prof che termina le sue lezioni, il gesto sportivo, è una forma importante di dialogo, è relazione, è reciprocità, è comunità. È amore. Forse lo avevamo dimenticato, troppo abituati a ripetere quasi meccanicamente questo gesto, senza più vedere il legame con la sua radice.

Non ci ricordavamo le parole del Salmo 47: «Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia». Il popolo imparò che di fronte alla grandezza dell’amore e della grazia del suo Dio non si poteva restar inerti e muti, e impararono ad applaudire, a battere le mani. E così anche noi: nello scorso, tremendo anno abbiamo imparato nuove cose, alcune per la prima volta (le mascherine, i non-abbracci, le distanze, soffrire e morire da soli, la gioia di essere «negativi»), e altre le abbiamo riscoperte: il valore di una telefonata, il significato vero di chiedere «come stai?», il linguaggio delle mani. 

Abbiamo capito in modo nuovissimo che le mani sanno dire molte cose, sanno dire le parole più importanti. Con un applauso, con una carezza, o sfiorandoci attraverso un vetro quando questo tocco è l’unico linguaggio rimasto. Non potendo per un lungo tempo usare le mani come le avevamo usate sempre, le abbiamo riscoperte. In un vuoto, in un’assenza, abbiamo capito che cosa è veramente una mano, che cosa è una mano che tocca quella di un’altra persona, che sfiora i capelli, che, battuta insieme all’altra, diventa uno dei modi più belli per dire grazie. 

Perché il 2020 è stato anche una grande epifania del corpo. Durante la sofferenza fisica collettiva più grande dalla fine della seconda guerra mondiale, durante la più grande eclisse del corpo generata prima da internet e poi dai social, abbiamo reimparato la grammatica del corpo, abbiamo riappreso il suo infinito linguaggio. Lo abbiamo riscoperto soffrendo per questa nuova malattia; e lo abbiamo riscoperto nella sua assenza quando, incontrando chi amavamo, non potevamo toccarlo.

Avevamo già imparato da qualche anno a fare molte cose senza corpo nel nostro ambiente sempre più virtuale; ma, improvvisamente, un invisibile virus ci ha fatto capire che cosa è veramente il corpo, il nostro e quello degli altri. Stare di fronte a un genitore e non poterlo abbracciare, guardare il nipote che ci viene a trovare e non poterlo baciare in fronte o l’amico che torna e ci dà il gomito; anche in questi non-abbracci abbiamo imparato che cosa è il corpo, in questi non-baci che cosa è un bacio. Nei non-applausi che cosa è davvero un applauso, e nell’assenza del pubblico che cosa è veramente il pubblico in uno stadio, in un teatro, in un’aula universitaria.

Abbiamo capito che il pubblico è essenzialmente corpo, e anche se sappiamo che le stesse persone che un giorno erano in platea ora ci stanno guardando in streaming, sentiamo che manca qualcosa, e che quel qualcosa è essenziale: manca il corpo. Torneranno gli applausi, torneranno gli abbracci. Ma non dimentichiamo che cosa abbiamo imparato sul corpo, questo fragile e fortissimo corpo che ci fa essere «poco meno degli angeli» (Salmo 8).

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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