Il prezzo di Socrate

Bruni, Luigino e Smerilli, Alessandra

Il prezzo di Socrate. La difficile arte della selezione del personale nelle organizzazioni a movente ideale

in Nuova Umanità n.174, vol.XXIX, 2007/06

La selezione del personale è un processo molto delicato in ogni organizzazione. Nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) 1, che sono realtà nate attorno ad una ben chiara mission o “vocazione”, saper attrarre le persone giuste è un’operazione decisiva per la qualità della crescita nel tempo dell’OMI, e in molti casi per la loro stessa sopravvivenza.

Il prezzo di Socrate

Il presente scritto va letto in continuità con un precedente studio comparso su questa stessa rivista (Bruni e Smerilli 2006), nel quale abbiamo esaminato le possibili “trappole” nelle quali possono precipitare le OMI a seguito di un cambiamento generazionale non riuscito. Il cambio generazionale è infatti un tipico momento critico per le OMI, proprio a causa della necessità di sostituire alcuni membri chiave dell’organizzazione stessa, membri spesso portatori di “vocazione” o di motivazione intrinseca. Resta comunque il fatto, vuoi per il pensionamento dei fondatori, vuoi per la perdita di alcuni soggetti-chiave dell’OMI (che magari cambiano lavoro), vuoi infine per il bisogno di assumere nuove persone per la crescita dell’organizzazione, che il momento della selezione di nuovi membri rappresenta una fase fisiologica di ogni organizzazione che abbia un ciclo di vita più lungo di quello dei propri fondatori.

In questo lavoro ci proponiamo di analizzare il fenomeno della selezione di nuovi membri (soci, manager, dipendenti) delle OMI. Tali organizzazioni sono interessate ad attrarre persone (almeno un certo numero) che abbiano la “vocazione” per svolgere l’attività che costituisce la mission dell’organizzazione. Ogni OMI ha bisogno di gente che insegna, cura malati, si occupa di sviluppo dei poveri per “vocazione” e non unicamente per il salario, come Socrate che, a differenza dei sofisti di Atene, non accettava pagamenti per le sue lezioni perché le considerava parte della sua missione filosofica. Al tempo stesso, i “novelli Socrate” che vivono oggi in una economia di mercato, hanno bisogno del salario per vivere: occorre quindi che l’OMI sappia immaginare una politica salariale che da una parte funga da “segnale” per attrarre “Socrate” che, sebbene abbia una vocazione, ha anche diritto ad una giusta remunerazione.

Nell’articolo precedente abbiamo affermato che non è necessario che tutti i membri di una OMI abbiano motivazioni intrinseche (che chiamiamo anche “vocazione” 2) perché si realizzi un clima positivo e si crei nell’organizzazione una cultura cooperativa: è comunque necessario che almeno un certo numero di soggetti siano mossi da motivazioni intrinseche, i quali diventano poi capaci (se raggiungono una determinata “massa critica”) di attivare altri che pur non avendo una forte motivazione intrinseca, si comportano ugualmente in modo cooperativo, in base ad una dinamica di imitazione.

Iniziamo dalla teoria standard della selezione del personale nelle organizzazioni (§ 1), quando l’informazione non è perfetta (situazione normale nelle dinamiche reali). Vedremo poi (§ 2) alcuni modelli che propongono teorie alternative, basate sull’idea che un buon strumento di selezione delle “vocazioni” sia “pagar meno” (salari più bassi di quelli degli altri settori non-vocazionali). Terminiamo, infine, offrendo una nostra proposta, che cerca di colmare alcuni limiti della teoria oggi presente in letteratura, offrendo, in conclusione, una chiave di lettura poco convenzionale del ruolo della vocazione nelle organizzazioni.

1. COME SELEZIONARE LE “VOCAZIONI”?

La nostra ipotesi di partenza consiste nel supporre che i dirigenti della OMI siano interessati a selezionare soggetti con “vocazione”: non solo soggetti tecnicamente preparati e abili per svolgere una data funzione, ma persone che oltre ad essere preparate 3 in più sentano come propria la mission e i valori della OMI. Quindi, per fare subito un esempio, una cooperativa che si occupa dell’inserimento lavorativo di soggetti disabili, non vorrà selezionare solo dirigenti e operatori 4 preparati “tecnicamente”, ma desidererebbe assumere persone che oltre alla preparazione tecnica abbiano una certa dose di “vocazione”. Tale vocazione porta queste persone ad avvicinare quei soggetti svantaggiati con una attenzione e una cura che nessun contratto potrebbe imporre con sanzioni o con incentivi. Spesso il successo sul mercato di tali organizzazioni dipende principalmente dal fatto che i clienti cercano e riconoscono in esse proprio quel “di più” che magari non vedono in una struttura pubblica o in una impresa for-profit, che magari ha la stessa (o maggiore) qualità tecnica, ma che non ha questi aspetti più di tipo ideale o motivazionale.

Il nostro primo mattone teorico è rappresentato dal classico articolo The market for Lemons di George Akerlof – uno degli articoli di economia più influenti nel XX secolo – scritto nel 1970, lo stesso anno del saggio di Hirschman che ci ha guidati nel precedente studio. L’idea base di quel breve saggio (che ha guadagnato, tra l’altro, il premio Nobel al suo autore), è l’antica Legge di Gresham: la moneta cattiva scaccia la buona. La legge di Gresham si riferiva al fenomeno, comune nelle società di antico regime, che si verificava quando in un dato territorio circolavano due monete di diverso valore intrinseco (quantità di oro o argento), ma con identico potere liberatorio (valore nominale): in questi casi avveniva che chi possedeva moneta meno buona (la “cattiva”) tendeva ad usarla per gli acquisti e circolava rapidamente (perché tutti volevano disfarsene) e, di conseguenza, spariva dal mercato la moneta “buona” (che veniva invece tenuta a casa) 5.
Oggi, anche grazie ad Akerlof, sappiamo che questa legge è di portata molto generale, e si applica non solo alle monete ma a un’ampia gamma di fenomeni, economici e, come mostreremo, anche di tipo motivazionale e relazionale.

Akerlof nel suo contributo andò alla radice della legge di Gresham, mostrando che la ragione di quel cattivo funzionamento del mercato (che seleziona le monete peggiori) era dovuta essenzialmente ad un problema di informazione, in particolare ad una informazione asimmetrica tra i contraenti: una parte (chi offriva moneta in cambio di beni) sapeva se la moneta che stava per utilizzare in quel contratto era buona o cattiva, mentre l’altra parte (chi riceveva la moneta) non sapeva distinguere tra i due tipi di monete 6.

L’esempio utilizzato da Akerlof nel suo articolo, ormai entrato in ogni libro di testo di microeconomia, è il funzionamento del mercato delle auto usate, un esempio che riportiamo anche noi perché crediamo faciliti la comprensione anche del diverso discorso che stiamo facendo.

Supponiamo (con Akerlof) che nel mercato dell’usato esistano due tipi di auto: quelle di qualità “buona” e quelle di qualità “cattiva” (i lemons, cioè i “bidoni”). Chi offre un’auto sul mercato sa se sta offrendo un’auto buona o un bidone (sa, ad esempio, che l’auto ha un difetto difficile da individuare in un giro di prova o a colpo d’occhio), ma chi l’acquista (ad esempio il concessionario) non può osservarlo direttamente al momento della stipula del contratto. Il prezzo delle auto, a causa di questa informazione asimmetrica, viene fissato dal concessionario in base al loro valore atteso. Se, ad esempio, il valore di mercato di un’auto usata “buona” è di 400 e quello di un’auto “cattiva” è di 200, e la probabilità di incontrare un’auto buona è il 50% (0.5), il prezzo che il concessionario offrirà potrebbe essere il seguente:

P = (400)(0.5)+(200)(0.5)= 300

Come funzionerà allora il mercato dell’usato? È semplice intuire che si avrà un cattivo funzionamento (o un fallimento) di un tale mercato. Infatti, chi sa di avere un’auto buona non accetterà il prezzo offerto perché inferiore a 400 (che è il prezzo minimo che egli è disposto ad accettare per l’auto che sa di essere buona), mentre chi sa di avere un bidone correrà a vendere la sua auto, perché ottiene così una rendita netta di 100 (il prezzo di mercato [300], meno il valore della sua auto [200]). Da qui le immediate conclusioni del ragionamento di Akerlof, che presentano più aspetti, tutti problematici:

a) Una prima conseguenza consiste nel fatto che chi ha un’auto buona non riuscirà a venderla (a meno che non accetti un prezzo inferiore al suo valore, realizzando uno scambio economicamente inefficiente)

b) In secondo luogo, nel mercato dell’usato si troveranno soltanto auto “cattive”

c) Chi cerca un’auto usata buona non riuscirà a trovarla nel mercato dell’usato, perché sarà popolato solo da bidoni;

d) Infine, il solo fatto di cercare di vendere un’auto usata viene interpretato come un segnale che l’auto è un bidone.

Il mercato in questo caso fallisce solo per una questione informativa: se ci sono potenziali venditori di auto buone, e potenziali acquirenti di auto buone (anche ad un prezzo più alto di 300), questi non riescono ad incontrarsi nel mercato dell’usato 7.

I risultati di Akerlof sono stati applicati ad un’infinità di situazioni diverse: dalle agenzie matrimoniali (il solo fatto di iscriversi ad una agenzia matrimoniale “segnala” che si è persone di qualità – estetica o relazionale – bassa) alle assicurazioni (come faccio ad evitare che si assicurino contro il furto solo i soggetti più imprudenti?), al credito bancario, e al “mercato” 8 del lavoro. In quest’ultimo esempio, se l’impresa non sa riconoscere l’abilità e la voglia di lavorare di chi ha di fronte, e offrirà a tutti un salario pari a 300 9), la teoria di Akerlof ci dice che saranno solo i lavoratori “cattivi” a candidarsi per quel lavoro.

Ovviamente questo risultato non è un bel messaggio per la teoria economica. Infatti, poiché nella realtà le imprese spesso riescono ad assumere anche (sebbene non solo) lavoratori preparati e volenterosi, ciò ci dice che il fallimento più significativo che questo modello di Akerlof ci svela è il fallimento della teoria economica ufficiale, che fino agli anni settanta era basata su ipotesi davvero troppo semplificate e ingenue, che le rendevano molto difficile comprendere la realtà economica e sociale.

Infatti, dopo Akerlof, la teoria economica ha immaginato diverse soluzioni per sanare questi fallimenti (della teoria, ripetiamo, più che del mercato), dovuti all’asimmetria dell’informazione. Questi rimedi si possono suddividere in due grandi famiglie: quelli centrati sull’offerta (i lavoratori che offrono il proprio lavoro, il privato che offre un’auto usata, ecc.), e quelli basati sulla domanda (le imprese che domandano lavoro, il concessionario le auto usate, ecc.). I modelli dell’offerta individuano la soluzione del problema in qualche tipo di “segnale” che l’offerente emette per rivelare alla controparte la propria qualità maggiore (della media). Tipici segnali sono l’istruzione nel mercato del lavoro (avere una laurea può segnalare all’impresa che si è “migliori” di chi non ce l’ha – e quindi meritare uno stipendio più alto), o la “garanzia” nel mercato dell’usato che segnala, in modo costoso (e quindi credibile), che l’auto che garantisco è migliore della media (e quindi l’acquirente può pagare, nell’esempio di cui sopra, un prezzo maggiore di 300) 10.

Se osserviamo la realtà delle organizzazioni e, in particolare, delle OMI, ci accorgiamo che l’uso dei segnali è prassi ordinaria nella selezione del personale. Spesso sono i lavoratori che hanno svolto lavoro volontario che vengono  assunti dall’organizzazione: l’aver prestato lavoro volontario nell’organizzazione riduce l’asimmetria informativa e segnale la presenza di motivazioni intrinseche. Nel curriculum vitae di un candidato si guarda il trascorso in attività di tipo associativo, un elemento che pesa molto in tali selezioni.

Più interessanti, per il discorso che stiamo svolgendo in queste pagine relativo alle OMI, sono i rimedi che la teoria suggerisce dal lato della domanda, in particolare, per restare nel nostro tema della selezione del personale, i meccanismi che una organizzazione può utilizzare per non selezionare “bidoni”.

Una prima teoria, molto diffusa e nota nella letteratura economica, riguarda la politica dei salari. Quando esiste asimmetria informativa, il datore di lavoro potrà pagare un salario più alto rispetto al valore atteso 11, sperando così di non selezionare solo lavoratori scadenti che non garantiranno un adeguato impegno. Infatti, se offro (sempre restando al nostro esempio) un salario maggiore di 300 (magari vicino ai 400 12), avrò qualche probabilità che tra i miei candidati ci siano anche dei soggetti “buoni” e non solo dei “cattivi” 13.

Questa teoria, oggi molto diffusa e influente, si basa, però, su di una ipotesi importante: che l’unico fattore incentivante i lavoratori, l’unica “carota” alla quale sono sensibili, sia il salario monetario. I lavoratori sono considerati essere degli individui ad una “sola dimensione”. Non c’è spazio, in una tale teoria, per altre forme di remunerazioni di tipo simbolico o ideale, che sono invece molto rilevanti nelle OMI, e non solo in queste.
Che cosa succede, invece, quando abbiamo a che fare con organizzazioni che cercano persone con motivazioni intrinseche?

L’associazione si trova anche essa in una situazione di asimmetria informativa nei confronti del nuovo candidato, e l’interesse dell’associazione è, lo abbiamo detto, selezionare soggetti preparati che abbiano però anche motivazioni intrinseche, per i motivi che abbiamo esposto all’inizio del nostro discorso.
Nel prossimo paragrafo vedremo alcune soluzioni che la teoria più recente offre in simili casi.

2. «PRENDI PIÙ SE PAGHI MENO»

Guardiamo ora da vicino alcuni di questi modelli che cercano di spiegare come può avvenire la selezione di personale con “vocazione”. L’idea base di tali modelli è la presenza di componenti non monetari o immateriali tra gli obiettivi del lavoratore, modelli che ormai stanno entrando nella letteratura economica da qualche anno.
Immaginiamo che l’impresa ipotizzi che un buon candidato (una/o con “vocazione”), non sia interessato unicamente al salario o agli incentivi materiali (come invece fa la teoria standard), ma attribuisca anche un valore intrinseco all’attività nella quale chiede di lavorare, un valore intrinseco che è parte della soddisfazione (o utilità) che egli trae dal lavoro per il quale si candida 14. In altre parole, potremmo affermare che la vocazione si traduca in una ricompensa intrinseca (non monetaria né materiale) che il soggetto ricava dallo svolgere quel determinato lavoro. Si ipotizza, quindi, che ogni lavoratore abbia sia motivazioni intrinseche (la vocazione) sia motivazioni strumentali (salario), con pesi diversi: un “buon lavoratore” sarebbe dunque un lavoratore che attribuisce un valore maggiore di zero alla componente intrinseca (mentre un lavoratore senza vocazione, quello della teoria standard, attribuisce valore solo al salario, e zero alla “vocazione”).
Quando la motivazione è presente, l’ammontare del salario non è dunque l’unico fattore determinante per i candidati. Per Heyes (2005), ad esempio, la “vocation” è proprio il desiderio di un individuo di impegnarsi direttamente nell’attività cui attribuisce un valore in sé. In particolare, per Heyes sono due le condizioni che debbono verificarsi per definire un lavoratore intrinsecamente motivato per un dato lavoro:

1. I lavoratori motivati vanno oltre il loro dovere nello svolgere il proprio lavoro.
2. Fanno un dato lavoro perché traggono piacere da quella data attività, e questo “piacere” compensa la differenza di salario.

Per queste ragioni, sempre secondo Heyes, un salario “troppo alto” può attrarre il tipo sbagliato di persona (senza “vocazione”). In situazioni di asimmetria informativa, dunque, l’offrire un salario più basso diventa, per l’impresa, uno strumento che spinge i candidati buoni ad auto-selezionarsi: «ottieni più pagando meno».
Traiamo alcune prime conclusioni da questa prima famiglia di modelli di selezione di soggetti con vocazione:

a) se il salario offerto dalla OMI (che indichiamo con W*) è minore di quello di mercato (pari a W), quando un lavoratore accetta un salario pari a W*, il suo semplice comportamento (l’accettazione) indica di per sé che egli ha un livello di motivazioni intrinseche maggiore di zero, poiché la differenza di benessere  tra il salario che potrebbe ottenere nel mercato (W), e il salario che invece egli accetta nella OMI, W* (essendo W* minore di W), viene compensato dalla soddisfazione intrinseca che quel lavoro gli dà; il “gap remunerativo” viene cioè colmato dalla felicità di svolgere un lavoro “in vocazione”. Se, ad esempio, il lavoratore fosse disposto a lavorare senza alcun salario (come volontario ad esempio), ciò rivelerebbe che tutto il benessere che egli trae da quel dato lavoro gli proviene dalla ricompensa intrinseca della “vocazione” 15.

b) Se invece la OMI offre ai candidati il salario di mercato (quindi W*=W), la politica salariale non gli fornisce alcuna garanzia di selezionare lavoratori motivati.

c) In questo caso, la OMI potrebbe però pagare delle rendite ai lavoratori motivati (non “sfruttando” cioè le loro motivazioni intrinseche), perché non abbiamo buone ragioni per dire che i soggetti “buoni” non accetterebbero un salario più alto e che verrebbero selezionati solo i “cattivi”.

d) Se dunque l’organizzazione offre un salario più basso di quello di mercato, può avere una certezza (almeno in un contesto senza disoccupazione strutturale) 16: non selezionerà nessun lavoratore con un livello di motivazioni intrinseche pari a zero. Sa, inoltre, che più riduce il salario, più i lavoratori selezionati avranno una componente intrinseca alta (se accettano) 17 – l’osservazione empirica degli stipendi dei dirigenti dell’economia sociale offre una forte conferma empirica a questa semplice conclusione.

e) Se, infine, l’organizzazione cercasse persone mosse unicamente dalle motivazioni intrinseche dovrebbe, coerentemente con questa teoria, non pagare affatto stipendi ma rivolgersi solo a volontari 18: la gratuità in questi casi selezionerebbe le persone migliori (come nel caso delle donazioni di sangue, dove il sangue donato è di qualità migliore di quello acquistato sul mercato) 19.

Sono queste le conclusioni che raggiungono i modelli accomunati dallo slogan: «getting more by paying less» (prendi più pagando meno), di Katz e Handy (1998) relativo alla selezione dei managers del non-profit, o di Heyes (2005) circa la politica salariale nella sanità inglese (notando, in particolare, come le migliori infermiere sono quelle pagate meno).

L’ipotesi cruciale di tali modelli teorici è che esista una proporzionalità diretta tra la genuinità delle motivazioni e disponibilità a sacrificare i benefici materiali (salario). Ma, possiamo chiederci, siamo sicuri che accettare un salario basso sia  il test corretto per misurare la motivazione intrinseca o la vocazione di una persona? Su questo torneremo in conclusione.

Qui accenniamo solo alla critica che alcune economiste rivolgono a tali teorie (Nelson 2005, Folbre e Nelson 2000, Folbre e Weisskopf 1998). Queste studiose sostengono che l’equivalenza “vocazione = sacrificio” è stata per molto tempo una copertura ideologica per il dominio e lo sfruttamento all’interno della famiglia, e che ora viene traslata da tali modelli in un argomento teorico a favore dei salari inferiori nelle occupazioni nei servizi di cura, occupazioni che restano ancora principalmente femminili. Secondo una tale critica, i salari più bassi del settore non-profit consentirebbero di coltivare la vocazione solo a quelle donne che hanno una indipendenza economica o che hanno mariti ricchi, mentre le donne con maggiori esigenze economiche sarebbero costrette ad accettare altre occupazioni non-vocazionali.

Queste semplici considerazioni colgono certamente alcuni limiti importanti di queste teorie del “pagar meno”, e ci spingono a complicare e arricchire le soluzioni operative proposte da questa famiglia di modelli. E’ quanto ci accingiamo a fare nei prossimi paragrafi.

3. QUANDO LE MOTIVAZIONI INTRINSECHE ENTRANO IN CONFLITTO CON GLI INCENTIVI MONETARI

Una prima complicazione del modello prende in considerazione la teoria  del cosiddetto «effetto spiazzamento delle motivazioni intrinseche» (motivational crowding-out effect).

La struttura teorica dei modelli analizzati nel paragrafo precedente si basa su una ipotesi tanto comune in economia quanto molto esigente. Si ipotizza, cioè, che i due obiettivi dei lavoratori, quello materiale (il salario, W) e quello non materiale (la ricompensa intrinseca, M), siano tra di loro indipendenti (e che si possano sommare 20). L’evidenza empirica ci fa però vedere che nella realtà questa ipotesi non sembra essere così innocua, soprattutto quando abbiamo a che fare con valori e attività “vocazionali”. E’ questa la tesi dell’economista svizzero Bruno Frey, che nel suo libro Not just for the money (1997) (uno studio dedicato interamente a questo tipo di situazioni) offre una grande evidenza empirica e numerosi dati sperimentali che mostrano l’esistenza del fenomeno dello “spiazzamento” (crowding-out) delle motivazioni intrinseche. La teoria del crowding-out di Frey è, anch’essa, una applicazione della legge di Gresham: la moneta cattiva (in questo caso gli incentivi materiali) scacciano (o spiazzano) quella buona (la motivazione intrinseca).

Dati alla mano, Frey mostra che una ricompensa monetaria può in certi casi ridurre l’impegno profuso in un’attività, invece di accrescerlo, soprattutto quando si ha a che fare con attività nelle quali sono importanti gli aspetti “vocazionali”, dove cioè esistono e sono rilevanti le motivazioni intrinseche. Sono varie le spiegazioni fornite a questo “effetto spiazzamento” dagli psicologi. Secondo Deci e Ryan (1985, 2002), ad esempio, una ricompensa monetaria incide sull’autodeterminazione e sull’autostima di chi è intrinsecamente motivato, perché in presenza di salari o ricompense monetarie il soggetto attribuisce al denaro il motivo per il quale lavora, e lo interpreta come un mezzo di “controllo” della sua azione e della sua libertà. L’intuizione sottostante è semplice. Le persone non sanno sempre attribuire un valore monetario alle loro attività. Se domandassimo, per un esempio, ad una madre di famiglia o ad un missionario quanto è il valore monetario di crescere un figlio o di ascoltare un povero, loro risponderebbero, probabilmente: «non ne ho la più pallida idea». Stessa risposta è quella che ascolteremmo da nostro figlio qualora gli chiedessimo il valore monetario di sparecchiare la tavola. Se, però, ad un certo punto iniziamo a remunerare la “sparecchiatura” con 5 euro, è possibile, e probabile, che il ragazzo inizi ad attribuire a quella sua attività il valore di 5 euro. Se facessimo la stessa operazione con la madre o con il missionario, dando loro una somma di denaro per la loro attività, è molto probabile che i due considererebbero quel denaro come una svalutazione o un dumping del loro impegno (anche se la somma di denaro fosse molto alta). Un fenomeno simile, in misure diverse, accade tutte le volte che iniziamo a remunerare lavoratori volontari, o quando usiamo incentivi per l’ambiente, e, in generale, in ambiti nei quali sono in gioco le virtù civiche 21.

Su questa base teorica, Frey spiega i dati che mostrano che mentre un aumento di salario può avere sia effetti positivi che negativi sulla performance (l’effetto netto sarà positivo se l’effetto incentivante dell’aumento di salario compensa lo spiazzamento delle motivazioni intrinseche), il passaggio da un lavoro gratuito ad una qualche forma di remunerazione monetaria sembra invece sistematicamente avere effetti negativi sull’impegno del lavoratore 22. Una conseguenza di tale teoria è la difficoltà, o l’impossibilità 23, di ritornare alla gratuità una volta che abbiamo iniziato a remunerare un volontario, senza che il benessere del lavoratore diminuisca 24.

Neanche queste conclusioni suggestive e importanti dei modelli con crowding-out motivazionale ci soddisfano però del tutto (anche se gettano luce su alcuni fenomeni importanti).

Perché?

Pensiamo, per fare un esempio, ad un giovane lavoratore volontario che, in seguito al matrimonio, si trova costretto a cercare un’occupazione retribuita. L’organizzazione nella quale lavora, conoscendo le sue motivazioni intrinseche, potrebbe facilmente proporgli l’assunzione retribuita pur di non perdere un lavoratore “con vocazione”. In questo caso sembra poco plausibile che si verifichino effetti di crowding-out motivazionale. Più in generale, non può essere presa per buona una teoria che pone in conflitto endemico le motivazioni intrinseche e quelle monetarie, come se la vita civile fosse un gioco “a somma zero” tra economia e socialità autentica: è questo il contenuto dell’ultima sessione.

4. CONCLUSIONE, DISCUSSIONE E UNA DOMANDA

Al termine di questa analisi dei meccanismi di selezione delle persone con vocazione (i moderni “Socrate”), una domanda cruciale resta ancora aperta: perché la vocazione dovrebbe essere associata ad una disponibilità ad accettare uno stipendio più basso? Quale è la giustificazione teorica, nonché pratica, di questa ipotesi?

In realtà, l’ipotesi culturale e antropologica associata a questi modelli è l’antica e radicata idea (che risale almeno a Adam Smith 25) che la socialità genuina e le motivazioni intrinseche non siano compatibili con la normale dinamica economica, con il mercato, una visione che ispira anche i modelli “più eterodossi” che abbiamo esaminato, i quali inseriscono nel discorso elementi più sofisticati come la motivazione intrinseca.

Alla luce di queste premesse antropologiche e culturali, se vuoi introdurre socialità genuina e vocazione nel mercato occorre “ridurre” da qualche parte la loro componente tipicamente economica, per lasciar così spazio alle motivazioni intrinseche. Anche i modelli del crowding-out motivazionale condividono una premessa simile: le motivazioni strumentali (lavorare per un salario) e quelle genuine (la vocazione) sono in conflitto tra di loro, le une tendono a scacciare o a “spiazzare” le altre.

Una tale lettura, quindi, incorpora a nostro modo di vedere un vizio culturale: il considerare la dimensione economica e quella genuina o vocazionale in conflitto strutturale. Non crediamo che questa visione conflittuale tra vocazione e remunerazione economica sia un messaggio positivo per l’economia e la società, certamente non lo è per chi si muove in una prospettiva di economia civile, dove il mercato è visto come un momento del civile (Bruni e Zamagni 2004).

A questo riguardo, una proposta interessante è quella che troviamo in un modello dell’economista australiano J. Brennan (2001), che propone un modello in parte diverso: non suggerisce alle OMI di pagare meno, ma comporre il salario in modo tale da renderlo relativamente più appetibile per chi ha la vocazione. Nell’esempio che fa circa i docenti universitari (che è l’oggetto del suo studio), egli nota che per indurre i candidati all’auto-selezione è necessario offrire un salario più basso di quello di mercato, ma al tempo stesso colmare la diffe-renza con forme di fringe benefits (es. fondi di ricerca) che sono apprezzate in modo selettivo, cioè solo da chi ha la vocazione accademica.

Gli stessi Handy and Katz (1998), oltre allo strumento del paying less, suggeriscono anche questo meccanismo di autoselezione (p. 258), in particolare nel campo accademico, dove «i professori orientati alla ricerca valutano i fondi di ricerca di più dei professori che non hanno un tale interesse» (Ib).  Similmente, Brennan divide i potenziali candidati in due categorie: i veri studiosi (S) «che attribuiscono un alto valore ai successi scientifici» (p. 265), e gli Expedients (E), «che sono motivati unicamente dal reddito che procura loro il lavoro accademico» (Ib.).

Questo filone di ricerca risulta, dalla nostra prospettiva, interessante perché non afferma la necessaria incompatibilità o conflitto tra vocazione e mercato: Socrate non viene pagato meno, ma solo diversamente, con incentivi più complessi e sofisticati, in modo da indurre i candidati buoni ad auto-selezionarsi 26.

Questa ci sembra la strada da seguire, anche se nel caso delle OMI la domanda chiave diventa: quali sono queste forme di remunerazione che spingono le persone giuste a candidarsi auto-selezionandosi? Nei professori universitari i fondi di ricerca (invece di maggiori stipendi) possono essere un buon strumento, ma in una cooperativa sociale, in una ONG, in una bottega del mondo, in un’azienda dell’Economia di Comunione, quali fringe benefits si possono utilizzare per selezionare “Socrate”?

La nostra proposta è che bisogna andare oltre l’idea che il fringe benefit sia solo di tipo materiale (come i fondi di ricerca), e muoversi nella direzione di individuare forme di remunerazione simbolica e relazionale, che non compensino i minori salari, ma si aggiungano ad essi come strumenti di auto-selezione 27.

Va infatti notato che non c’è solo la OMI che, in situazione di asimmetria informativa, cerca le vocazioni; ci sono anche lavoratori con vocazione (“Socrate”) che cercano l’organizzazione giusta alla quale rivolgersi. Il segnale “simbolico” ha dunque una duplice natura: consente all’impresa di segnalare la sua qualità ideale, e al candidato “buono” di trovare l’organizzazione giusta..

In questo senso ci sembrano fondamentali la cultura organizzativa e la governance di una OMI. Se la mission ideale è ben evidente, se l’idealità è alta e accountable, se la partecipazione alle decisioni d’impresa è partecipativa, questi fatti sono importanti segnali che attraggono le persone con vocazione. Non è forse vero – e l’evidenza è sotto gli occhi di tutti – che quando una organizzazione o una comunità esprime idealità alte nella sua dinamica concreta attrae persone di qualità, e quando queste idealità vanno in crisi inizia ad attrarre persone “strane” (bidoni)? In realtà dovremmo onestamente concludere che quando una organizzazione inizia a non attrarre più “Socrate” già la sua crisi ideale è in uno stato avanzato, e, forse, è già troppo tardi per riportare la OMI alla situazione di partenza. La difficoltà nell’attrarre le “persone con vocazione” è già un sintomo (non la causa) che l’idealità dell’organizzazione non è più visibile dall’esterno.

In sintesi, è la cultura complessiva di una organizzazione che diventa il vero segnale di auto-selezione per i nuovi candidati; e quando si presentano solo o troppi candidati “senza vocazione” (i novelli “sofisti”), ciò dice che è la cultura generale dell’organizzazione a non attrarre più: è dunque a questo livello identitario e fondativo che occorre agire se si vuol trasformare il circolo da vizioso a virtuoso.

Certo non è questo un bel messaggio con cui chiudere questo articolo su come attrarre Socrate in una OMI, ma è in ogni caso una considerazione che può aiutare a prevenire tali fenomeni.

Infine, per concludere, una domanda scomoda, soprattutto a questo punto del discorso: siamo sicuri che la vocazione sia qualcosa (uno stock, un dato caratteriale …) che esiste nelle persone prima di iniziare un lavoro, oppure è possibile immaginare che la vocazione sia almeno in parte endogena all’attività e al lavoro stesso? Si potrebbe, per un esempio, distinguere tra preferenza per il lavoro ex-ante (prima di intraprenderlo), e l’atteggiamento verso il lavoro ex-post (una volta intrapreso). Per fare un esempio pensiamo, ancora, ad una cooperativa sociale. Nel selezionare i suoi manager occorre individuare la vocazione (ad esempio dedizione ai soggetti svantaggiati) offrendo un salario più basso, oppure possiamo ipotizzare che una volta assunti questi dirigenti riconoscono che un obbligo di un buon lavoratore in quel settore è essere attento e disponibile verso le persone curate?

Ci piace lasciare a questa domanda aperta la conclusione di questo studio dedicato ai criteri per selezionare le vocazioni nelle OMI. Da una parte, infatti, le storie, le culture, le identità delle persone sono diverse, e la parola “vocazione” esprime questa diversità: non tutti passeremmo quarant’anni a curare malati, non tutti dedicheremmo la nostra vita alla ricerca di nuove galassie, non tutti doneremmo la nostra vita ai poveri. D’altra parte, è altrettanto vero che ci sono tante altre cose che accomunano tra di loro gli esseri umani al di là di queste differenze, e fanno sì che una persona, soprattutto se è giovane, fiorisce e cambia se inserita in organizzazioni vive e ideali, e sfiorisce, diventando nel tempo cinica e opportunistica, se cinica e triste è la cultura organizzativa nella quale si trova ad operare.

Senza “Socrate” non c’è OMI; ma una volta che l’OMI esiste, è essa stessa, con la sua dinamica e con la sua cultura organizzativa, che sa creare “Socrate”, tirando fuori da ciascuno il suo buon “daimon” 28.

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