I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 04/08/2024
Friedrich August Von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974 è a buon titolo considerato il padre nobile del neoliberismo moderno. Fondatore, animatore e primo presidente della Mont Pélèrin Society, Hayek è stato il più strenuo oppositore delle teorie di John Maynard Keynes e delle sue ricette interventiste oltre che ispiratore diretto della politica economica di Margaret Thatcher e Ronald Regan. Nel 1991, un anno prima della morte, George W. Bush gli conferisce la Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza assegnata dal Presidente degli Stati Uniti. “Friedrich August von Hayek – si legge nella motivazione - ha fatto più di qualsiasi altro pensatore della nostra epoca per esplorare le promesse e i confini della libertà”.
Hayek è un personaggio interessantissimo. Austriaco di nascita, cugino di Ludwig Wittgenstein e amico fraterno di Karl Popper, che chiamerà a metà degli anni ’40 alla London School of Economics. Hayek studia dapprima economia, filosofia e psicologia ottenendo, infine, due dottorati, in diritto nel 1921 e in scienze politiche nel 1923. Studia e lavora con i principali esponenti della scuola austrica Carl Menger, von Wieser e Ludwig von Mises che lo assume come suo assistente. Passa un periodo a New York dove inizia ad interessarsi alla politica monetaria. Si fa notare per l’intelligenza e la vastità di interessi e nel 1931 viene chiamato da Lionel Robbins alla London School, assieme ad altri futuri pesi massimi come John Hicks e Nicholas Kaldor. Negli anni giovanili Hayek prese una sbandata per il socialismo per poi sterzare, sotto l’influenza di von Mises, verso posizioni liberali estreme che verranno stemperate nel corso degli anni assumendo una configurazione che rende il pensiero di Hayek originale e difficilmente etichettabile. Definito dai più come un conservatore tradizionalista intitolerà il poscritto al suo La Società Libera (Rubettino, 2007) “Perché non sono un conservatore”. Qui, per differenze, delinea i tratti del suo liberalismo che è propenso e fiducioso rispetto al cambiamento, mentre i conservatori “sono inclini a servirsi dei poteri di governo per impedire un cambiamento o per limitarne la portata a quanto più soddisfa la mentalità più timorosa”, caratterizzati da una forte “passione per l’autorità, [da] l’incomprensione delle le forze economiche” e da un “compiacimento, caratteristico (…) per l’azione dell’autorità costituita”. Mentre per i liberali come lui la preoccupazione maggiore “è quella che il potere sia tenuto entro certi limiti” mentre per i conservatori, al contrario, è “quella che l’autorità non sia indebolita”. "Questo atteggiamento – chiosa Hayek - si concilia difficilmente con il mantenimento della libertà”. Hayek propende per la libertà individuale, per l’ordine sociale che emerge in modo spontaneo attraverso l’azione di cittadini che liberamente perseguono i loro interessi e che sfruttano tutte le opportunità offerte dal mercato per migliorare la loro condizione. In questo quadro il governo deve svolgere un ruolo limitato alla protezione dei diritti di proprietà, al funzionamento dei contratti, alla rimozione degli ostacoli che bloccano il meccanismo di mercato. Il governo deve, in altri termini, “coltivare” le condizioni dello sviluppo, non deve determinarlo o dirigerlo. Il liberalismo che ha in mente Hayek deriva – nelle sue stesse parole “dalla scoperta di un ordine autogenerantesi o spontaneo della realtà sociale (…) un ordine che ha reso possibile utilizzare la conoscenza e le capacità di ogni membro della società in misura enormemente maggiore di quanto sarebbe possibile in qualsiasi ordine creato dall’autorità centrale e che ha condotto al conseguente desiderio di fare il più completo uso di queste potenti forze che danno origine all’ordine spontaneo” (“Relazione tenuta alla Conferenza di Tokyo della Mont Pélèrin Society”, settembre 1966).
Questa visione del funzionamento del mercato e della società più in generale è radicalmente differente, secondo Hayek, da quella dell’economia tradizionalmente intesa, dall’economia del suo tempo. Differenza talmente radicale che Hayek sceglie di designare questo ordine di mercato con un nuovo termine – “catallassi” – proprio per differenziare la sua visione dell’economia da quella classica. Il termine deriva dal greco Katallattein che, come ancora scrive Hayek “vuol dire non solo «barattare» e «scambiare», ma anche «ammettere nella comunità» e «diventare amici da nemici»”. Il liberalismo, dunque, è l’insieme di tutto ciò che politicamente, socialmente ed economicamente occorre fare per favorire il sorgere di un tale ordine, in primis, riducendo quanto più possibile l’interferenza del governo nelle scelte libere dei cittadini. Impedendo ogni forma di intromissione nel loro “dominio individuale protetto”. “Il liberalismo – continua Hayek - è perciò inseparabile dall’istituzione della proprietà privata, che è il nome che noi diamo di solito alla parte materiale di questo dominio individuale protetto”. In questo senso la funzione coercitiva del governo deve essere limitata all’applicazione di “regole di condotta” che stabiliscono la cornice dei rapporti tra persone che si trovano a dover interagire tra loro pur avendo differenti fini e differenti valori. Regole negative, nel senso che stabiliscono ciò che gli uomini e le donne non possono fare. Oltre a far rispettare queste regole di condotta il governo può intervenire in maniera coercitiva solo per richiedere ai cittadini di contribuire, secondo princìpi uniformi al costo dell’applicazione di tali regole e al costo relativo alle “funzioni di servizio”. Tali “funzioni” come specifica Hayek, sono “cert’altri servizi che, per varie ragioni, le forze spontanee del mercato non possono produrre o non possono produrre adeguatamente”. Questi servizi hanno a che fare con la protezione dei cittadini dai rischi naturali derivanti da “uragani, alluvioni, terremoti, epidemie e così via” e con quelle azioni necessarie a prevenire o rimediare ai danni che da questi possano derivare. “Vi è poi tutta un’altra classe di rischi – continua Hayek - rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative […]. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani - cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società, la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare” (Legge, Legislazione e Libertà, Il Saggiatore, 2010). A questa forma di assicurazione contro i rischi naturali e quelli sociali legati a varie forme di invalidità Hayek affianca anche un vero e proprio sostegno al reddito. Scrive nel suo dialogo autobiografico “ho sempre detto di essere a favore di un reddito minimo (…) un reddito minimo su cui ognuno possa contare”. Ne La Società Libera fa riferimento poi ad “un sistema di assistenza pubblica che sia un minimo uniforme a tutti i casi di comprovata necessità, tale da far sì che nessuno dei consociati manchi di cibo o di tetto”.
Oltre alla protezione dai rischi naturali e da quelli della povertà estrema l’azione pubblica dev’essere considerata legittima, benché coercitiva in natura, in materia di istruzione. “Nella società contemporanea – scrive Hayek sempre ne La Società Libera - la necessità di un’istruzione obbligatoria fino a un certo livello minimo è duplice. In generale, tutti saremo esposti a minori rischi e riceveremo più vantaggi dai nostri simili che condividono con noi certa conoscenza di base e certe credenze. E, in un paese con istituzioni democratiche, c’è un’altra importante considerazione, che cioè la democrazia non può funzionare, o può funzionare solo su minima scala locale, con una popolazione in parte analfabeta”. L’istruzione pubblica, dunque, garantisce un livello minimo di autonomia nel poter godere dei benefici dell’ordine spontaneo, un più efficiente funzionamento delle istituzioni democratiche, ma anche una maggiore compatibilità dei valori di vita. “È importante riconoscere – scrive Hayek al riguardo, che l’istruzione generale non è solo e forse nemmeno principalmente un mezzo per comunicare la conoscenza. C’è la necessità di certi standard comuni di valori e, sebbene sottolineare eccessivamente questa esigenza possa comportare conseguenze molto illiberali, una comune esistenza pacifica non sarebbe ovviamente possibile senza nessuno di questi standard”.
Il governo, dunque, poste queste poche eccezioni ha come compito fondamentale quello di fare rispettare le “regole di condotta”. Questa posizione è netta e va distinta chiaramente da quella secondo cui il governo deve stabilire fini e gli scopi dell’organizzazione sociale. Mentre la prima visione è compatibile con un’impostazione liberale la seconda è totalmente incompatibile. La ragione di tale incompatibilità è curiosamente di natura epistemologica, attiene cioè alla natura della conoscenza e alla sua distribuzione nella società. Ci occuperemo più avanti di questo tema così caratteristico del pensiero hayekiano.
Le “regole di condotta”, dunque, sono quelle che costituiscono l’ossatura della visione della giustizia di Hayek. Egli la definisce ulteriormente attraverso quattro caratteristiche fondamentali: la prima fa riferimento al fatto che “di giustizia si può sensatamente parlare solo riferendosi all’azione umana e non a un qualche stato di cose come tale, a prescindere dal fatto che esso sia stato, o avrebbe potuto essere stato, deliberatamente causato da qualcuno”; la seconda proprietà specifica che “le regole di giustizia hanno essenzialmente la natura di proibizioni o, in altre parole, che l’ingiustizia è realmente il concetto primario e che lo scopo delle regole di mera condotta è quello di prevenire un’azione ingiusta”; la terza caratteristica indica che “l’ingiustizia da prevenire è la violazione del dominio protetto di ogni individuo, un dominio che dev’essere reso certo per mezzo di queste regole di giustizia” e, infine, la quarta proprietà stabilisce che le regole di giustizia “possono essere sviluppate attraverso la coerente sottoposizione di qualunque regola che una società abbia ereditato a un test di applicabilità universale”.
Dal primo punto deriva, tra le altre cose, che una distribuzione di beni generata dall’ordine spontaneo del mercato, imprevedibile a priori perché inintenzionale, non si potrà mai definire “giusta” o “ingiusta”. Qui emerge la differenza di fondo tra la posizione di Hayek e di tutti quei filosofi politici ed economisti che valutano la bontà di una istituzione sociale alla luce dei suoi esiti distributivi. Una distribuzione, per Hayek, può essere efficiente o inefficiente, buona o cattiva, ma mai giusta o ingiusta in quanto non dipende dalla volontà dei singoli. La seconda proprietà specifica che le regole di condotta devono essere regole negative, regole che specificano, cioè, ciò che non deve essere fatto. “All’infuori dell’adempimento di obbligazioni che un individuo ha volontariamente contratto – scrive Hayek - le regole di mera condotta delimitano, in questo modo, semplicemente una serie di azioni consentite, ma non determinano le azioni particolari che un uomo deve intraprendere in un particolare momento”. La terza caratteristica, poi, sottolinea che l’ingiustizia che le regole di condotta sono volte a prevenire è generata da quei comportamenti che si configurano come un’invasione nel dominio protetto di altri individui. Tale dominio è, seguendo Locke, principalmente da intendersi come quello delimitato dalla proprietà privata, anche se tale proprietà non è da intendersi solo in termini materiali, ma deve ricomprendere “alcune pretese sugli altri e certe aspettative”. L’ultima caratteristica discussa da Hayek attiene alla possibilità di dover avere a che fare con regole ereditate da ordinamenti storici precedenti. In questo senso, come in altre parti del suo sistema di pensiero, Hayek adotta un approccio evolutivo. Si chiede perciò quale criterio, analogamente a quanto accade con la selezione naturale, dovrebbe essere utilizzato per far sopravvivere una data regola ereditata storicamente annoverandola tra le regole di condotta che compongono un ordine liberale. Il test adottato da Hayek è, in questo caso quello classico della “universabilizzabilità” kantiana. Ciò significa che, applicata a una qualsiasi circostanza concreta, una regola di condotta non dovrà confliggere con nessun’altra regola già accettata.
Una caratteristica fondamentale di queste regole di condotta è il fatto che si tratta esclusivamente di regole formali, regole cioè, che limitano la condotta individuale senza definirne i fini e gli obiettivi. Ciò implica che il governo dovrà limitarsi ad indicare “come” fare le cose ed astenersi dall’immischiarsi sul “cosa” è necessario fare. Con una suggestiva immagine Hayek afferma al riguardo che “il passaggio dall’organizzazione tribale, in cui ogni membro serve scopi comuni, all’ordine spontaneo della Società Aperta, in cui a ciascuno è consentito perseguire le proprie finalità pacificamente, [è] cominciato quando, per la prima volta, un selvaggio ha portato alcuni beni al confine della sua tribù, nella speranza che qualche membro di un’altra tribù li trovasse e lasciasse, a sua volta, alcuni altri beni per assicurare la ripetizione dell’offerta. Dalla prima affermazione di questa pratica, che ha servito scopi reciproci ma non comuni, è stato portato avanti, per millenni, un processo che, rendendo le norme di condotta indipendenti dagli scopi particolari, ha permesso la diffusione di tali regole a cerchie sempre più ampie di persone indeterminate e che, alla fine, potrebbe rendere possibile un pacifico e universale ordine mondiale”.
Questa breve introduzione all’impalcatura della teoria hayekiana e alla sua particolare visione di liberalismo ci servirà per approfondire nelle prossime settimane il fondamentale nesso tra giustizia e fallibilità umana, le ragioni della sua radicale opposizione a qualunque idea di giustizia declinata in termini sociali, la sua concezione di merito e responsabilità individuale e infine il suo controverso rapporto con Rawls. Frederich von Hayek rappresenta un personaggio e un pensatore originale e fuori dagli schemi che, sfortunatamente, anche in Italia, è stato troppo spesso tirato per la giacchetta per farlo diventare il riluttante campione di ora questa ora quell’altra fazione ideologica. Un destino che lo accomuna ad altri pensatori come Antonio Gramsci, per esempio. Grandi intellettuali che sarebbe ora di liberare dalle gabbie ideologiche che troppa politica e poco pensiero critico hanno costruito loro attorno.
Credits foto: © Irene Sarà