I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 17/09/2023
I metodi dell'etica (1874) di Henry Sidgwick rappresenta a detta del filosofo John Rawls «la prima opera veramente accademica di filosofia morale». Un trattato di grande importanza sia perché procede alla definizione coerente dell'approccio utilitaristico sviluppato fino ad allora in maniera meno sistematica da Bentham e Mill, sia perché mette in luce oltre ai punti di forza, con grande onestà intellettuale, anche tutti i limiti dell'utilitarismo.
L'opera presenta al suo interno una vera e propria teoria della giustizia che Sidgwick sviluppa del quinto capitolo del libro terzo. È interessante, in particolare, la trattazione che egli propone del concetto di merito (desert). Il punto di partenza è un'esplorazione dei fondamenti dell'idea di giustizia distributiva: «Esistono principi chiari – si chiede Sidgwick - a partire dai quali possiamo elaborare una distribuzione idealmente giusta di diritti e privilegi, oneri e doveri tra gli esseri umani in quanto tali?».
Le risposte tradizionali cui egli fa riferimento e prende inizialmente in considerazione attengono ai concetti di diritti naturali, libertà e merito. Per quanto riguarda i diritti naturali la questione è complicata dal fatto che, afferma Sidgwick «è difficile trovare nel senso comune un accordo definito nell'enumerazione di questi diritti naturali, tanto meno principi chiari da cui possano essere sistematicamente dedotti». Eppure, essi possono, in qualche modo, essere riassunti e convogliati tutti sotto un unico principio: “la libertà dall'ingerenza”. Tale libertà – continua il filosofo – è «l'insieme di ciò che si può dire rigorosamente che gli esseri umani, originariamente e prescindendo dai contratti, si devono gli uni gli altri (…) Tutti i diritti naturali possono essere riassunti nel diritto alla libertà; così che il rispetto completo e universale di questo diritto sarebbe la realizzazione completa della giustizia, poiché l'uguaglianza a cui si pensa miri la giustizia viene interpretata come uguaglianza di libertà».
Ma Sidgwick dimostra, passaggio dopo passaggio, che il concetto di libertà dall'ingerenza costituirebbe un fondamento ben poco saldo per l'idea di giustizia, sia per le sue aporie interne sia per la natura della relazione che sussiste tra libertà e felicità che, in un'ottica utilitaristica, rimane comunque l'ultimo metro di valutazione di ogni azione ed istituzione. «L'ideale di giustizia, come comunemente lo concepiamo – conclude il filosofo - sembra richiedere che non solo la Libertà ma tutti gli altri benefici e oneri siano distribuiti, se non equamente, almeno giustamente, - essendo la Giustizia nella distribuzione considerata non identica all'Uguaglianza, ma semplicemente escludente la disuguaglianza arbitrari».
Il terzo concetto che, dopo quello di diritti naturali e di libertà viene esplorato come possibile fondamento dell'ideale di giustizia è, come abbiamo detto, il “merito”. La rilevanza del concetto di merito per deriva da un naturale “istinto di gratitudine” che proviamo verso chi ci ha fornito un servizio o arrecato un beneficio. Analogamente, su scala sociale, tendiamo ad essere grati a tutti coloro che hanno prodotto analoghi benefici o servizi a vantaggio dell'intera collettività. Questo “dovere di gratitudine”, afferma Sidgiwck, può essere sussunto sotto una massima più generale secondo la quale “il merito deve essere ricambiato”, una massima che può essere ulteriormente generalizzata nell'affermazione secondo cui «gli uomini dovrebbero essere ricompensati in proporzione ai loro meriti». Ma qual è l'origine di tali meriti? La questione non è banale, soprattutto se inserita in un quadro deterministico come quello delineato da Sidgwick a proposito della volontarietà delle azioni, del libero arbitrio e della libertà di scelta. La sua posizione, infatti, evidenzia il fatto che l'effettiva utilità di qualsiasi servizio o beneficio arrecato alla società da parte di un individuo dipende da molte circostanze favorevoli e da fortunate coincidenze e non può essere fatta risalire direttamente alla libera responsabilità dell'agente: possono contribuire capacità innate, magari sviluppate grazie a condizioni di vita favorevoli, o irrobustite attraverso una buona educazione. Perché dovremmo premiare qualcuno per queste fortune? Bisognerebbe magari premiare coloro che hanno educato tale individuo e lo hanno messo nelle condizioni di agire a beneficio della società. In definitiva Sidgwick rifiuta le nozioni ordinarie di “merito”, “demerito” e “responsabilità” perché basate su una concezione fallace di libero arbitrio. Propende, al contrario, per una visione deterministica che rintraccia la sorgente ultima di ogni “merito” in elementi che esulano dal controllo e dalla responsabilità individuale: la nascita, la famiglia, l'educazione, la lotteria genetica, aggiungeremmo noi oggi.
Ma questa posizione radicale non impedisce a Sidgwick di considerare comunque la necessità politica e sociale di ricompensare i buoni risultati e di punire le cattive azioni. Ricompensare e punire come, però? Quale dev'essere il “giusto valore” di tali ricompense o delle punizioni? Saremmo tentati di assimilare il valore del servizio al suo prezzo, afferma il filosofo, e quindi assoggettarlo alle variazioni tipiche dei mercati competitivi. Nessuno quindi, per esempio, potrebbe considerare ingiusta una ricompensa inferiore rispetto ad un'altra associata allo stesso servizio ma in circostanze e condizioni di mercato differenti. Siccome «questo, che possiamo chiamare l'Ideale Individualistico – continua Sidgwick - è quello al quale le moderne comunità civilizzate tendevano ad avvicinarsi (…) è quindi molto importante capire se esso soddisfa pienamente le esigenze della moralità». L'analisi di Sidgwick procede dimostrando come per ragioni varie l'utilità sociale di un certo servizio può differire anche considerevolmente dal suo prezzo di mercato: ragioni legate ad asimmetrie informative, per usare una terminologia moderna, o ancora perché abbiamo a che fare con beni pubblici a cui è impossibile attribuire un prezzo definito; qui Sidgwick fa l'esempio delle scoperte scientifiche. Passa poi a considerare variazioni indotte del prezzo legate all'esercizio del potere di mercato da parte di monopolisti o a shock esogeni dovuti a crisi o emergenze. «Se dovessi vedere Creso in procinto di annegare, quanto sarei meritevole se decidessi di salvarlo ma a prezzo di metà della sua intera ricchezza?», chiede il filosofo. Forse metà dell'intera ricchezza di Creso rappresenterebbe una ricompensa eccessiva per il merito dell'azione compiuta. In conclusione, sembra difficile poter ammettere che il valore del merito vari in relazione al gioco della domanda e dell'offerta.
«Non sembra possibile che il merito sociale di un individuo possa propriamente essere diminuito semplicemente dall'aumento del numero o dalla volontà di altri di rendere gli stessi servizi (…) difficilmente sembra possibile che il valore sociale del servizio di un uomo sia accresciuto dal fatto che il suo servizio è reso a coloro che possono pagare generosamente». Se la dinamica di mercato non è adatta a ricompensare il merito dovremmo allora far riferimento ad altre misure? Il valore intrinseco del servizio così come valutato da “giudici competenti”, forse? - ipotizza Sidgwick - magari commisurando tale valore alla felicità sociale prodotta? Ma anche questa strada viene scartata per le evidenti difficoltà che essa presenta. «Per affrontare questi punti in modo soddisfacente – continua il filosofo – dobbiamo adottare una linea di ragionamento completamente diversa: dobbiamo chiederci non quali servizi di un certo tipo abbiano un valore intrinseco, ma quale ricompensa possa incentivarli e se il vantaggio che la società può trarre da tali servizi sia superiore al costo necessario per ricompensarli». Ecco qui l'idea di “quasi-merito” come lo definisce il filosofo di Oxford, David Miller (“Sidgwick and Rawls on distributive justice and desert”, Politics, Philosophy Economics, 20(4), pp. 385–408, 2021). Il premio o la sanzione per le azioni socialmente utili o per quelle dannose non trova fondamento nel merito o nel demerito di chi le compie, ma nella necessità da parte della società intera di promuovere e favorire le prime e di scoraggiare e ridurre le seconde.
Premi e sanzioni non dovrebbero essere, dunque, tanto legate allo sforzo individuale o alla colpa, quanto al ruolo che questi premi e punizioni possono avere nell'incentivare o nello scoraggiare azioni che sono rispettivamente utili o dannose per la società. Dire che qualcuno “merita una punizione” per un atto dannoso significa semplicemente, allora, credere che “il timore della punizione impedisca a lui e agli altri di commettere atti simili in futuro”. Analogamente per le ricompense: “Quando si dice che un uomo merita una ricompensa per qualsiasi servizio reso alla società, il significato è che è opportuno ricompensarlo, in modo che lui e altri possano essere indotti a rendere servizi simili dall'aspettativa di simili servizi”.
In conclusione, vista l'impossibilità di ricompensare le azioni in base al loro “valore intrinseco” dovremmo considerare impraticabile la costruzione di un ordine sociale basato sul merito, e questo nonostante il senso comune continui ad equiparare l'ideale di giustizia proprio alla necessità di premiare il merito. I tentativi “meritocratici” che fanno i genitori coi figli o lo Stato con i suoi servitori o militari – continua Sidgwick - non fanno altro che mostrare “quanto rozzi e imperfetti siano i criteri utilizzati nel decidere i valori in campo”. Sarà, dunque, l'adempimento dei contratti e il rispetto delle aspettative legittime (un tema che ritroveremo anche in Rawls), a definire se non l'ideale, almeno la possibilità concreta di una società giusta dove l'equità distributiva potrà scaturire dalla contrattazione libera tra le parti.