Mind the economy

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Henry Sidgwick, la giustizia e il merito

I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.

di Vittorio Pelligra

Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 10/09/2023

La ricca tradizione dell'utilitarismo classico, a partire da Cesare Beccaria, con il fondatore ufficiale Jeremy Bentham e il padre nobile John Stuart Mill, trova il suo culmine con l'opera del più influente filosofo inglese dell'età vittoriana, Henry Sidgwick. A dire il vero definirlo “filosofo” è decisamente essere riduttivo. A Cambridge, dove passerà tutta la sua vita accademica, ha iniziato tenendo corsi di letteratura, dai classici a Shakespeare, per poi passare alla filosofia morale, ma si è occupato anche di economia – assieme ad Alfred Marshall ha fondato quella che diventerà nota come “Scuola di Cambridge”, e poi di politica, sia in termini di elaborazione culturale che come consulente di numerosi governi dell'epoca; fu anche un attivo riformatore della politica universitaria, promuovendo, in particolare, un più ampio accesso delle donne all'istruzione superiore. Fondò, per questo, sempre a Cambridge, il Newnham College, uno dei primi college femminili di tutta l'Inghilterra. Tra i suoi discepoli più affezionati ci furono Bertrand Russell, George Edward Moore, Francis Ysidro Edgeworth e John Neville Keynes, il padre del più famoso John Maynard.

Nel 1869 Sidgwick si dimise da Fellow del Trinity College perché non poteva più, in buona coscienza, aderire ai 39 articoli della Chiesa Anglicana, la dichiarazione di fede che ogni membro dei college era obbligato a sottoscrivere. Gli fu consentito, però, di mantenere la docenza. Anche grazie al suo gesto eclatante dopo qualche anno tale requisito venne abolito. Nel 1881 venne eletto Fellow ad honorem e poi, nel 1885, reintegrato a pieno titolo nel suo ruolo.

In ambito filosofico il suo capolavoro è The Methods of Ethics pubblicato nel 1874, un libro che Charlie Dunbar Broad, il quale molti anni dopo, occuperà la cattedra che fu di Sedgwick, definì come “Il miglior trattato di teoria morale che sia mai stato scritto, e uno dei classici filosofici inglesi”.

Le intuizioni del senso comune

Il ragionamento etico di Sidgwick parte dal presupposto che in ogni possibile situazione il senso comune ritiene che esista sempre qualcosa di “giusto” fare (right to) o che “è necessario” fare (ought to). Sidgwick, come molti anni dopo di lui John Rawls, è convinto che si debba partire da simili intuizioni del senso comune per costruire una teoria etica per quanto raffinata e logicamente coerente. La teoria, quindi, diventa quasi una razionalizzazione e sistematizzazione di ciò che le persone normalmente pensano riguardo alla giustizia.

Esistono almeno due buone ragioni per sostenere una tale posizione: la prima è quasi ovvia e riguarda il fatto che se questa teoria deve essere effettivamente una teoria della giustizia non può ignorare l'uso che si fa e il contenuto che si attribuisce quotidianamente a tale parola. Come scrive Sidgwick, questo obiettivo potrà considerarsi raggiunto quando la definizione di giustizia “sarà accettata da tutti i giudici competenti poiché presenta, in una forma chiara ed esplicita, ciò che hanno sempre inteso con questo termine, anche se forse in modo implicito e vago. Nel cercare una tale definizione possiamo, per così dire, tagliare il bordo frastagliato dell'uso comune, ma non dobbiamo eliminarne alcuna parte considerevole” (Sidgwick, 1907, p. 264).

C'è anche una seconda ragione, questa ha invece carattere normativo: se si vuole che la teoria abbia una valenza prescrittiva, sia cioè, capace, di orientare e guidare saggiamente le scelte delle persone, queste devono essere disposte ad andare nella direzione che essa indica. Per questo ciò che la teoria identifica come “giusto” non può essere radicalmente differente da ciò che il senso comune intende per “giusto”.

L'analisi di Sidgwick procede con rigore prendendo in considerazione tre prospettive (Methods) etiche differenti che definisce, rispettivamente, “egoismo razionale”, “intuizionismo” e “utilitarismo”. L'obiettivo che si pone e quello di dimostrare come ciò che il senso comune intende con i termini “buono” e “giusto” può trovare fondamento solido solo in un quadro utilitaristico. Del resto, l'abbiamo detto, Sidgwick è l'ultimo dei grandi utilitaristi classici. Ora andare troppo nei dettagli di tale dimostrazione richiederebbe troppo tempo e spazio, ma vorrei concentrarmi su un particolare aspetto di quel ragionamento che ha riacquistato, oggi, nuova rilevanza sociale e politica: il concetto di “merito” (desert).

La giustizia e il merito

Il capitolo quinto del terzo libro di The Methods of Ethics è interamente dedicato al tema della giustizia. La discussione si concentra sui principi che dovremmo utilizzare, secondo giustizia, appunto, per distribuire, libertà, beni, opportunità, ma anche “mali”, cioè pene e sanzioni. Nell'ambito di questa discussione emerge il concetto di merito. Sidgwick inizia a chiedersi, indipendentemente dalla sua realizzabilità pratica, se una distribuzione egualitaria di tutti i beni, potrebbe essere considerata giusta dalla maggior parte delle persone. Possono esserci molte alternative, infatti, al principio di uguaglianza, una di queste, suggerisce Sidgwick, è la “gratitudine”. Se consideriamo la gratitudine non solo come una caratteristica delle relazioni interpersonali, come quella tra due amici, per esempio, ma anche delle relazioni sociali e impersonali, come tra un datore di lavoro e un lavoratore o un medico e un paziente, allora potremmo ottenere un principio più generale secondo cui le persone dovrebbero essere ricompensate in base ai loro “meriti”, in base, cioè, al contributo che hanno dato nel produrre un servizio, un bene, una prestazione o più in generale un “qualcosa” che ha contribuito ad incrementare il benessere di un cittadino e in questo modo il benessere di tutta la società.

Sidgwick va avanti nel rifinire la sua argomentazione e passa, ora, a considerare quello che chiama il “giusto merito”. Nel far questo si chiede se sia più corretto ricompensare il merito sulla base dello sforzo messo in atto dall'agente o dei risultati da esso ottenuti. Perché in effetti il benessere prodotto da una certa azione e la gratitudine sociale che ne deriva, dipendono di solito da una grande quantità di fattori concorrenti che si combinano tra loro in vario modo e che sono nella maggior parte dei casi del tutto al di fuori della sfera di responsabilità dell'agente: certe abilità sono innate, altre si sono potute sviluppare solo perché si è nati in un certo luogo e in un certo tempo; e a parità di luogo e tempo, la differenza la fa la famiglia, perfino l'ordine di nascita, per non parlare del genere. E poi le scuole che si frequentano, gli amici che si incontrano, le occasioni che si presentano. Insomma, davvero possiamo essere grati a qualcuno perché è nato uomo e non donna o bianco invece che nero? Una volta che riconosciamo la complessità della questione le ragioni per premiare le “eccellenze accidentali” si indeboliscono significativamente. C'è l'impegno però? Non basta la fortuna. E quale sarebbe il rapporto corretto? Impegno 20%, fortuna 80%, o forse il contrario, impegno 80% e fortuna 20%. E se si capisse, poi, che in effetti, anche la capacità di impegnarsi, quelle che oggi si chiama “capitale umano non-cognitivo” ha una fortissima componente endogena?

Il criterio dell’uguaglianza

In fin dei conti l'unico criterio giusto, sembra concludere Sidgwick e non del tutto a torto, appare quello dell'uguaglianza. Non troveremmo ingiusto, infatti, che qualcuno possa fare meglio di un altro, ed essere premiato per questo, semplicemente come risultato di circostanze che stanno totalmente al di fuori del suo controllo e della sua responsabilità. La conclusione di Sidgwick, che anticipa molto del dibattito contemporaneo sulla “retorica della meritocrazia”, di cui abbiamo affrontato varie volte anche su Mind the Economy, è certamente estrema, ma necessaria, secondo lui, per evitare l'ingiustizia che si determinerebbe con qualunque altra forma di riconoscimento dei “meriti” che sarebbe del tutto arbitraria, vista l'impossibilità pratica di disaggregare i risultati delle azioni di una persona nella componente dovuta all'impegno e quella legata alla fortuna; la libera scelta dal puro caso.

Per molti commentatori dell'epoca e anche per alcuni contemporanei una soluzione efficace a questo problema può essere trovata ricorrendo alla competizione di mercato, un giudice giusto e impersonale, o no?

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