I Commenti de «Il Sole 24 Ore» - Mind the Economy, la serie di articoli di Vittorio Pelligra sul Sole 24 ore.
di Vittorio Pelligra
Pubblicato su Il Sole 24 Ore il 19/03/2023
La giustizia, in ebraico tzedaqah, è secondo la Torah uno degli attributi principali di Dio. È questa giustizia che guida la sua azione nei confronti di Israele, azione volta a riparare gli effetti della malvagità e dell'iniquità degli esseri umani. L'esodo degli ebrei dall'Egitto, la liberazione del popolo oppresso dal giogo della schiavitù, è la prima manifestazione di questo intervento divino nella storia. E agli occhi di Israele, anche una volta liberati, Dio continuerà ad essere considerato, come ci ricorda Enzo Bianchi, «il difensore degli oppressi, dell'orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che sono vittime dell'ingiustizia, di coloro i cui diritti vengono violati e negati. La prima azione di Dio è pertanto quella del giudice che interviene per ristabilire la giustizia».
Fare giustizia ed essere giusti
Fare giustizia ed essere giusti significa, in questa prospettiva, dunque, essere e vivere ad immagine di Dio. Solo una vita giusta è una vita di fede che può portare alla vera conoscenza di Dio. Troviamo questa identità tra vita e conoscenza espressa in Geremia, quando il profeta, rivolgendosi al malvagio re Jehoiakim, usa queste parole: «Guai a chi costruisce la sua casa senza giustizia e le sue stanze superiori senza equità, che fa lavorare il prossimo per nulla e non gli retribuisce il suo lavoro, e dice: “Mi costruirò una casa grande con spaziose stanze superiori”, e vi apre finestre, la riveste di legno di cedro e la dipinge di rosso. Pensi forse di essere re, perché sei circondato da cedro? Tuo padre non mangiava e beveva? Ma agiva con rettitudine e giustizia e tutto gli andava bene. Egli difendeva la causa del povero e del bisognoso e tutto gli andava bene. ”Non significa questo conoscermi?” dice l'Eterno».
Operare con giustizia
Operare con giustizia soprattutto nei confronti dei più deboli e degli oppressi è, dunque, la via privilegiata per conoscere l'Eterno. Non attraverso riti e osservanze vuote, ma praticando la giustizia, perché “il Signore è giusto”. Nel Nuovo testamento Gesù viene a ribadire questa necessità di dare anima alla Legge e all'osservanza rituale attraverso l'intenzione giusta. «Non pensiate che io sia venuto a sciogliere la Legge o i Profeti; non son venuto per sciogliere, ma per riempire» (Mt 5, 17). E ancora «se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5, 20).
«Questo non significa, continua sempre Enzo Bianchi, in una conferenza tenuta qualche anno fa al Consiglio superiore della magistratura, che la giustizia degli scribi dei farisei fosse ipocrita; no, era un adempimento della giustizia prescritto dalla Torah, dalla parola di Dio. Gesù però osa risalire all'intenzione del Legislatore, non si ferma alla norma oggettiva, chiedendone invece un adempimento più radicale e profondo».
L’intenzione
L'accento viene posto ora sull'intenzione quale aspetto essenziale di ogni azione giusta. «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (Mt 6, 1-2). La giustizia evangelica è una giustizia che sorprende e scandalizza, che interrompe il nesso causale tra il delitto e il castigo, che perdona «settanta volte sette», che paga l'operaio dell'ultima quanto quello della prima ora, che non condanna l'adultera. Non c'è giustizia senza misericordia sembrano volerci dire tutti questi episodi. L'apostolo Giacomo è ancora più esplicito nell'affermare l'indissolubilità di misericordia e giustizia. «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo la legge della libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà fatto misericordia. La misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2, 12-13).
A Roma
Quando questa visione arriva a Roma l'impatto è grande. Come per Aristotele così per Cicerone la dea giustizia non aveva ancora la benda dell'impersonalità calata sugli occhi. Ci vedeva benissimo e faceva valere le differenze. Per Aristotele la giustizia si applicava solo tra pari, e donne, stranieri, lavoratori e schiavi non ne erano degni. Con Cicerone le cose cambiano, ma solo parzialmente. Le differenze non sono più categoriali ma di capacità. Ed è sulla base di queste diverse capacità che dovrebbero essere assegnati i ruoli all'interno della società. Differenze di minore entità rispetto alla visione aristotelica, ma pur sempre differenze che vanificano i requisiti necessari a poter sperare di vivere, tra tutti, relazioni improntate alla giustizia. Cicerone, diversamente da Aristotele sottolinea che non esiste alcuna distinzione categorica tra i gradi di razionalità di cui gli esseri umani sono capaci; eppure, per esempio, continua a giustificare l'esistenza della schiavitù proprio sulla base di una distinzione tra coloro che sono più forti, per ingegno e acume, e coloro che sono, invece, più deboli. Mentre per Aristotele la differenza tra cittadini liberi e schiavi è iscritta nella legge di natura, per Cicerone e per il diritto romano, più in generale, essa appartiene allo jus gentium, ha natura consuetudinaria che viene codificata in prassi. La schiavitù, così come, del resto, la subordinazione delle donne continua a sopravvivere in occidenti fino ai tempi moderni. Eppure, gli anticorpi a questa visione “locale” della giustizia erano stati inseriti nel corpo sociale molti secoli prima.
Una società di uguali
È stato il cristianesimo, in particolare, a proporre (imporre?) una visione di società di uguali. Tutti gli esseri umani, non importa quanto umili, sono chiamati figli di Dio e questa comune paternità li rende fratelli. Non contano più le capacità umane se tutti abbiamo pari valore agli occhi di Dio. Il cristianesimo, ma anche il giudaismo, l'induismo, il buddismo e l'islam non promettono la giustizia in questa vita. Tutte le grandi religioni hanno reindirizzato le aspirazioni umane verso l'aldilà. La diffusione e il successo di queste religioni hanno molto a che vedere con la consolazione che esse possono offrire davanti alle sofferenze e alle ingiustizie terrene. Agostino di Ippona fu uno dei principali portavoce di questa prospettiva.
Il cristianesimo
Quando opera, nel IV secolo, il cristianesimo era già religione ufficiale dell'Impero e le invasioni barbariche erano già cominciate. Scrive la sua opera principale, La Città di Dio, proprio a seguito del sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti. Lungo il solco della tradizione aristotelica e poi romana, Agostino accoglie l'idea di giustizia come distribuzione proporzionale, come reciprocità bilanciata in base ai meriti. E qui si inserisce l'elemento trascendente. Chi, infatti, può dire di avere più meriti di Dio stesso? Chi, dunque, merita maggior rispetto ed obbedienza di Lui? Come abbiamo visto poco sopra, la giustizia è per i cristiani la conseguenza della scelta di operare coerentemente con la volontà di Dio. Ma per via del peccato originale questo è possibile solo in parte, solo in modo imperfetto; ne deriva che la giustizia su questa terra non potrà che essere, nel migliore dei casi, imperfetta.
Agostino
Nella Lettera 111, Agostino scrive esortando Vittoriano ad accettare con santa sopportazione le sciagure provocate dai Barbari. Sciagure che a causa della nostra incapacità di amare perfettamente Dio, ci siamo, in qualche modo meritati, così come meritano le loro pene anche i più innocenti tra noi. Non esiste dolore innocente. «Ci sono coloro che dicono – scrive Agostino - se noi peccatori meritiamo questi castighi, perché mai furono uccisi dalla spada dei barbari pure tanti servi di Dio e condotte schiave tante serve del Signore? A costoro rispondi, con umile sincerità e pietà, in questo modo: per quanto grande possa essere la nostra santità e l'obbedienza prestata a Dio, potremmo forse essere migliori dei tre giovani gettati nella fornace di fuoco ardente, per aver voluto rispettare la legge di Dio? Ciononostante leggi quello che dice Azaria, uno dei tre, il quale prendendo la parola in mezzo al fuoco esclamò: Sei benedetto, Signore, Dio dei nostri padri, e degno di lode; e il tuo nome è glorioso in eterno; poiché tu sei giusto riguardo a tutte le cose che hai fatte a noi e tutte le tue opere sono verità e retta è la tua condotta e giusti sono i tuoi giudizi; giudizio conforme a verità hai fatto nel far cadere sciagure su di noi e su Gerusalemme, la città santa dei nostri padri, poiché con verità e giustizia le hai fatte cadere su di noi a causa dei nostri peccati, avendo noi peccato e disubbidito alla tua legge e non avendo dato ascolto ai tuoi precetti promulgati per il nostro bene; tutti i castighi che ci hai inflitti ce li hai inflitti con perfetta giustizia. Ci hai inoltre consegnati nelle mani dei nostri peggiori nemici, uomini iniqui e prevaricatori, di un re iniquo, anzi il peggiore che sia su tutta la terra. Ed ora non potremmo neppure aprir bocca, divenuti oggetto di vergogna e di ludibrio per i tuoi servi e per coloro che ti adorano. Erano in mezzo alle tribolazioni – continua Agostino - dalle quali peraltro vennero risparmiati perché le stesse fiamme non osavano toccarli; eppure, confessavano senza alcuna reticenza i loro peccati, in pena dei quali riconoscevano d'esser umiliati come meritavano e con giustizia».
Dove nasce l’ingiustizia
L'ingiustizia nasce dunque dall'incapacità naturale dell'Uomo a aderire pienamente alla volontà di Dio ed è questa mancata adesione che giustifica il dolore e le sofferenze anche dei più giusti e santi. L'ingiustizia che diventa, paradossalmente, giusta, perché semplicemente la giustizia vera non è di questo mondo sembra affermare Agostino. E una volta inserito questo elemento ultraterreno, le rivendicazioni della giustizia distributiva su questa terra perdono importanza. La fede in un grande Dio onnisciente e moralizzatore modifica la metrica con la quale misurare il giusto e l'ingiusto.
Come sostiene Mathias Risse «La giustizia diventa un ordine che si dispiega su una scala molto più ampia. Si valuterebbe quindi il dovuto a ciascuno non sulla base delle cose umane ma con riferimento ad un mondo più vasto di cui le realizzazioni umane costituiscono solo una piccola parte» (On Justice. Philosophy, History, Foundations. Cambridge University Press, 2000). Su questo punto le differenze tra Cicerone e Agostino non potrebbero essere maggiori.
Continua sempre Risse: «Per Cicerone, ciò che ogni persona merita è valutato nell'ambito del nostro contesto sociale. Per Agostino, questo compito è impossibile. Per Cicerone, la giustizia terrena è un concetto rigoroso. Per Agostino la giustizia limitata agli affari terreni è importante, ma solo nel suo contesto ristretto; essa perde di importanza davanti a considerazione di carattere divino. Infine, per Cicerone, la presenza di un essere divino onnipotente non complica la questione relativa all'applicazione della giustizia. Per Agostino, invece, il fattore divino è il fattore cruciale». Così cruciale da avere degli effetti non solo su una città, neanche solo sull'Impero; la giustizia divina diventa un concetto illimitato nella sua applicazione, un concetto universale a cui ogni uomo è soggetto.